«La pandemia ha messo in luce quanto sia fragile il sistema di produzione alimentare. L'emergenza offre dunque all'Unione Europea, allo Stato e alle imprese l’opportunità di rendere il comparto agrifood, dai campi alla distribuzione, più equo, con prezzi adeguati per agricoltori e consumatori, e soprattutto più sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale».
È quanto pensa il professor Enrico Bonari, che si autodefinisce, dall'alto dei suoi 75 anni,
uno studioso di agronomia ormai stagionato ma che mostra invece una visione moderna e illuminata. Professore emerito della Scuola Sant'Anna di Pisa, membro dell'Accademia dei Georgofili, componente della Commissione Nazionale Grandi Rischi presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha al suo attivo oltre 400 pubblicazioni scientifiche e collaborazioni con il Ministero degli Affari Esteri e con diversi Organismi Internazionali, quali FAO e IFAD, per iniziative didattico-scientifiche e professionali in vari Paesi in via di sviluppo.
In queste settimane Bonari confessa di essersi soffermato più volte a pensare a dove, come e quanto l’agricoltura italiana - o, forse meglio, le diverse agricolture italiane, come tiene lui stesso a sottolineare - avrebbe sofferto della crisi in atto e anche, di conseguenza, se e come si potesse fin da subito pensare di approfittare delle conseguenze di un evento così traumatico per mettere a punto dei nuovi modelli di sviluppo dell'attività primaria e di tutto il comparto agroalimentare. Tralasciando l’urgenza di trovare soluzioni adeguate ai problemi più immediati di cui si legge ogni giorno sui giornali – il rischio di perdite dei raccolti, la carenza di mano d’opera stagionale, gli esuberi di produzione in alcune filiere, il professore si è sentito attratto soprattutto da una possibile riflessione su come si può e si deve affrontare in chiave di sviluppo futuro il coacervo dei problemi storici dell’agricoltura italiana, di cui non sempre, a suo avviso, si tratta in maniera adeguatamente approfondita.
Non esiste una sola agricoltura in Italia
«È evidente - spiega Bonari - che il mondo agricolo nel suo complesso dovrà trovare il modo di approfittare fin da subito di tutte le riserve di cultura, scienza, innovazione, capacità di progettazione, in essere nel mondo della ricerca, nell’università e nella scuola, per determinare un tempestivo salto di qualità nella capacità di progettare e realizzare i modelli di agricoltura sostenibile che più si addicono alle differenti realtà agro-ambientali. Ai livelli più alti della politica agricola nazionale e regionale si dovrà tener maggiormente conto del fatto che non c’è e non può esserci una sola agricoltura in Italia. In un Paese così variegato sul piano delle caratteristiche naturali, storiche, economiche, sociali e della naturale potenzialità produttiva, la ricerca di un accettabile modello di agricoltura sostenibile, oltre che adattare gli elementi tecnici ed economici della gestione dell’attività primaria a livello aziendale e alle più evidenti differenze fra le aree agricole, deve anche prevedere con più razionalità e trasparenza e con minori difficoltà burocratiche tutti gli interventi esterni previsti a sostegno della produzione primaria e delle filiere produttive locali da questa sostenute».
Qualunque coltivazione è migliore dell'abbandono
«Credo che ormai non sia più differibile la messa a punto di una politica credibile di salvaguardia dei territori interni di tutto il centro-meridione, anche riconoscendo una volta per tutte che proprio in questi comprensori l’esercizio dell’agricoltura è alla base della conservazione attiva dell’intero territorio».
«Del resto, negli ultimi decenni, in molte di queste aree è apparso già evidente che in mancanza di una visione strategica definita sulla base del complesso delle caratteristiche locali (e non solo agronomiche) non saremmo riusciti a frenare il crescente abbandono dell’attività agricola. Qualche anno fa all’Accademia dei Georgofili, trattando della possibilità di introdurre colture agrarie da biomassa a destinazione energetica nelle aree più marginali, sostenni che qualunque coltura agraria é migliore dell’abbandono anche dal punto di vista ambientale; e ciò perchè il coltivare prevede comunque la costante presenza dell’uomo sul territorio e di riflesso garantisce la sua conservazione e anche il controllo sul paesaggio agrario nel suo complesso».
«La mia uscita non trovò allora tutti d’accordo, poichè a taluni pareva che pure una quota modesta di superfici occupate da colture a destinazione energetica confliggesse troppo con la produzione di cibo, ma oggi anche la statistica ufficiale rende ormai evidente - dal 1971 al 2010 abbiamo perso ben 5 milioni di ettari di SAU dei 18 milioni totali e vedremo quanti ancora ne avremo perduti con il prossimo censimento - che per evitare l’abbandono delle aree interne qualche cosa di più rispetto al passato lo dobbiamo sicuramente fare (colture poliennali, zootecnia estensiva, cerealicoltura di qualità, biomasse e bioenergie, agroforestazione, agriturismo)».
Utopia sostenibile anche in agricoltura
«Basta guardarsi intorno per capire che oggi, in molti dei territori rurali italiani, non è più possibile continuare a prevedere modelli di sviluppo ed interventi di sostegno che non sappiano e possano tener conto delle differenti caratteristiche agro-ambientali in cui sono chiamate ad operare le singole realtà produttive aziendali primarie e secondarie».
«Non possiamo più eludere il problema ed occorre coniugare in chiave molto locale tutto quanto è esposto efficacemente da Enrico Giovannini nel suo libro “L’utopia sostenibile”. Se vogliamo veramente pensare di “approfittare” delle riflessioni imposte dalle difficoltà create da questa pandemia per proporre un’evoluzione delle attività agricole, in tutte le loro sfaccettature, verso migliori livelli di sostenibilità, appare indispensabile rammentare anche quanto le scelte dell’agricoltore siano di primaria e capitale importanza anche per la conservazione del terreno agrario e del suo livello di fertilità».
«Se è evidente che ciò è necessario per qualunque indirizzo aziendale (cerealicolo, industriale, ortivo, zootecnico, frutticolo, misto) e per tutti i contesti produttivi possibili (agricoltura convenzionale, biologica, integrata), non possiamo non rammentare che – semplificando al massimo - in qualunque tipologia di terreno agrario, la conservazione di un adeguato livello di fertilità dipende soprattutto dalla capacità di conservare nello stesso una sufficiente quantità di sostanza organica. E ciò insieme alla possibilità di contenere adeguatamente l’erosione e limitare al massimo il compattamento del suolo. Dobbiamo tutti imparare ad accompagnare la scelta “economica” delle colture aziendali e delle rispettive tecniche di coltivazione che intendiamo adottare con una ricorrente stima del bilancio della sostanza organica del terreno per il complesso del sistema colturale adottato; e se questo non tornasse positivo dobbiamo mettere in campo tutte le necessarie correzioni in proposito».
Ripartire dalle professionalità e competenze
«Ho letto su Terra e Vita una posizione che condivido: l’agricoltura non ha bisogno solo di manodopera generica e oggi più che mai nelle campagne c’è assoluta necessità di personale qualificato, preparato, specializzato in grado di operare un adeguato e tempestivo trasferimento dell’innovazione. C’è a mio avviso bisogno nei campi delle competenze tecniche, agronomiche, di comunicazione, di cui sono certamente dotati i neo-diplomati e neo-laureati delle aree professionali di riferimento, che regolarmente assunti dalle aziende per un congruo periodo di tempo potrebbero approfittarne per completare la loro preparazione professionale».
«Su questo fronte un'alleanza strutturata delle Università e delle Scuole con il sistema produttivo potrebbe assicurare il giusto equilibrio tra teoria e prassi nella preparazione dei futuri professionisti e dare origine ad un enorme valore aggiunto, con innegabili vantaggi reciproci e di ampio respiro».