Nel biologico la ricerca stenta a decollare

Carlo Triarico
Per Carlo Triarico (presidente dell’Associazione per l’agricoltura dinamica) servono «un piano nazionale a lungo termine e un organismo interprofessionale ampiamente partecipato» per sostenere la progettualità. Vediamo un’anticipazione dei temi che tratterà al convegno organizzato da Edagricole a Fieragricola il 31 gennaio

«Nonostante l’Italia sia il primo paese per suolo coltivato in biologico e il primo esportatore europeo, la ricerca è stata trascurata, se non avversata, nel nostro paese – afferma Carlo Triarico, presidente dell’associazione biodinamica –. Gli agricoltori bio hanno dovuto far fronte all’innovazione col proprio ingegno. Per molto tempo l’ambiente universitario ha emarginato la bioagricoltura e pochi ricercatori vi hanno intrapreso ricerche, spesso casi isolati interni agli atenei».

«In Italia – continua Triarico - esistono enti privati di ricerca che sopravvivono grazie al volontariato e all’abnegazione di pochi studiosi, come Agrifound Borsa di ricerca Giulia Maria Crespi, la Fondazione Italiana Ricerca in Agricoltura Biologica e Biodinamica (Firab), la Società italiana di Scienze Biodinamiche (Sisb), la Rete Italiana per la Ricerca in Agricoltura Biologica (Rirab), il Gruppo di Ricerca Agricoltura Biologica (Grab-It), Agroecology Europe - Aida e il Gruppo di docenti per la libertà della scienza. Dal 2009 c’è un fondo statale che destina alla ricerca in bio una percentuale dal fatturato italiano dei pesticidi, ma solo recentemente ha dato esito a due bandi riservati a capofila pubblici».

«La partecipazione di centinaia di progetti, per una dozzina di approvabili, testimonia lo stato di bisogno. Va tenuto presente che ora l’Ue ha destinato al bio il 30% dei fondi per la ricerca in agricoltura. Dunque il nostro paese arriva impreparato, senza gli istituti vocati che hanno gli altri in Europa. Il rischio evidente è di sprecare questa dotazione straordinaria, soprattutto se essa venisse intercettata da chi ha bisogno di fondi quali che siano, ma non ha competenze in materia e soprattutto non è connesso con le reali esigenze del settore. Le nostre organizzazioni del bio oggi si rivolgono spesso all’estero, dove gli istituti di ricerca in biologico e biodinamico sono realtà consolidate e sostenute dallo Stato».

A proposito delle rese delle colture bio che cosa ci può dire?

«Va premesso che ai nostri tempi la resa non corrisponde necessariamente alla ricchezza. Com’è noto la sovrapproduzione è la carestia dell’epoca industriale. Tuttavia il rapporto costi – prodotto e il rapporto bisogni – disponibilità sono fattori che nel bio vanno migliorati. Un grande studio internazionale, il dicembre 2017 su Nature, indicava la diminuzione delle produttività con l’adozione dell’agricoltura biologica tra l’8 e il 25% (Muller et al., 2017). Il deficit si spiega, ma è colmabile, se consideriamo la scarsa ricerca di cui il settore ha goduto finora sul piano internazionale, a fronte di ingenti investimenti che hanno fatto progredire il modello industriale di agricoltura».

«Mi chiedo però cosa sarà a lungo termine, considerando che l’agricoltura iperproduttiva impoverisce i suoli e determina un calo progressivo di resa. Tuttavia, pur con i suoi limiti odierni, quando sono stati applicati progetti agroecologici di agricoltura bio in paesi del Sud del mondo, dove il costo delle risorse non rinnovabili e dei mezzi tecnici non è sussidiato e dunque poco accessibile, le rese sono raddoppiate. Questa la media calcolata su 286 progetti internazionali di sviluppo nei paesi più poveri, quelli dove maggiormente occorre puntare alle rese (de Schutter, 2010)».

Ma, in sostanza, il bio è economicamente  sostenibile?
La tecnologia può aiutare?

«L’agricoltura tutta si trova davanti a una grande crisi e gli ingenti sussidi sono sempre meno risolutivi e sostenibili. Occorre intervenire sul modello. La sostenibilità del bio riguarda nel piccolo la singola azienda, ma nel grande le scelte di politica alimentare che devono essere fondate sulla sovranità delle comunità».

«Qui interviene lo studio e lo sviluppo tecnologico e dei saperi – puntualizza Triarico  -. Una tecnologia è degna se affianca saper fare a sapere cosa fare. Se non disporremo di nuove tecnologie fondate sulle solide basi teoriche di un nuovo paradigma scientifico, non potremo generare quel cambio di passo oggi necessario per un’agricoltura che abbia futuro. Ai fini della nutrizione mondiale, il rapporto tra terre coltivate e alimenti agricoli è critico e dovrà migliorare se vogliamo raggiungere l’obbiettivo Fame zero dell’Onu, ma l’attenzione va spostata sul valore nutrizionale degli alimenti, non sul loro peso grezzo».

«Ai fini invece del reddito agricolo e del valore aggiunto dell’agricoltura non possiamo trascurare la grave questione del giusto prezzo dei prodotti agricoli, anche di quelli bio, e la grave sperequazione che si genera lungo la catena del valore. Miseria e ingiustizia sono insopportabili. Questione che si affronta socialmente, a partire da un impegno interprofessionale che veda la nascita di un’economia associativa solidale come regime esemplare del biologico. Solo la nascita di un’economia che associ in un’interprofessione italiana del bio tutti gli attori sociali, anche i consumatori, e tutte le organizzazioni del bio, potrà vincere una sfida che riguarda tutti noi».

Cosa dovrebbe fare il sistema del bio italiano
per raggiungere gli obiettivi definiti dalla Farm 2 Fork?

«Il progetto di Green deal europeo rischia una parziale marcia indietro dell’Ur e la Pac stessa potrebbe non avere la coerenza necessaria alla transizione ecologica e per garantire un futuro ai nostri campi. L’Italia, con la sua preminenza in biologico e biodinamico, sarebbe il primo danneggiato. Obiettivi ambiziosi, come il 50% di suolo bio nel 2030 e il dimezzamento dei pesticidi, si raggiungono se accompagnati da un’azione di sistema su ricerca e formazione e da un progetto industriale di grande portata, altrimenti rischiano di fallire».

«L’Italia potrebbe sì, magari in forza dei sussidi, raggiungere l’obiettivo, ma col rischio di risultati effimeri e di nessuna incidenza reale per il bene del paese. Proprio l’Italia, per la sua vocazione, dovrebbe divenire il capofila naturale della governance europea del Green deal ed esserne il primo beneficiario. Chi di noi lavora da decenni su questo, avverte l’urgenza di mettere le proprie competenze a servizio del Paese, affinché le scelte provengano da reali competenze e puntino a soluzioni ispirate al bene comune. Abbiamo da formare la nuova generazione di ricercatori, consulenti, agricoltori, trasformatori e rivenditori».

«Occorre chiamare gli esperti italiani del bio, e purtroppo non siamo in tanti, a un piano nazionale che arrivi fino al lungo termine. La normativa del bio va resa applicativa subito nei suoi aspetti di sviluppo. Lo strumento dei controlli deve divenire un sistema integrato coerente. Serve un progetto per i mercati esteri e una comunicazione nazionale per aumentare i consumi bio, insieme a strumenti capillari di rafforzamento nei distretti territoriali. Infine occorre un organismo interprofessionale del bio ampiamente partecipato che, se includerà tutta la ricchezza del biologico italiano, saprà fare il bene comune. Attendiamo la chiamata a questo compito».

 

Il convegno sulle strategie di rilancio del bio si terrà alla fiera di Verona il 31 gennaio alle 15.30 (attenzione la scaletta potrebbe essere soggetta a variazioni)

Clicca qui per vedere la locandina

Nel biologico la ricerca stenta a decollare - Ultima modifica: 2024-01-19T10:55:58+01:00 da Alessandro Maresca

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