L’agricoltura italiana, da circa un decennio, non cresce. Il valore aggiunto è in media di circa 28.500 milioni ed è compreso fra un minimo di 28.087 e un massimo di 28.960 milioni. Allo stesso tempo gli altri settori dell’economia sono addirittura scesi al di sotto del valore iniziale, ma hanno presentato poi una debole tendenza ad una modesta crescita. Il peso dell’agricoltura nella formazione del Pil non si discosta dal 2% scarso. Il contributo all’occupazione è in lieve, ma costante calo tendenziale e si colloca poco al di sotto del 4%.
Questi primi anni 2000 vanno divisi in due parti separate fra loro dall’inizio della crisi. Quelli prima sono stati vissuti con una sensazione di fiducia in un futuro che si prospettava più positivo del recente passato. L’accordo Gatt apriva i mercati, la domanda alimentare cresceva, il sistema agricolo reggeva alle novità della Pac. Ma con la crisi gli equilibri sono saltati: l’agricoltura ha riscoperto la volatilità dei prezzi e gli scompensi dei mercati a cui era disabituata. La vecchia Pac viene messa in soffitta, cala il sostegno dei governi nazionali impegnati a fronteggiare la crisi, la domanda di alimenti si contrae perdendo la sua anticiclicità.
In una situazione inedita, l’agricoltura si è salvata da sola e ha dimostrato che, se i prezzi sono remunerativi, ha la capacità di rimbalzare e di produrre di più. Lo ha fatto incrementando la produttività, razionalizzando l’impiego dei mezzi di produzione, seguendo le nuove esigenze del mercato, tentando di spostare verso il consumatore la frontiera.
Sono cambiate le dimensioni delle imprese, si è organizzata diversamente la filiera agricola, ma senza poter accedere a sostanziali innovazioni a causa della crescente avversione ai ritrovati della ricerca ed alla loro utilizzazione in agricoltura. Tutto ciò si è svolto in un contesto di politiche agrarie sempre meno dotate di risorse e, sul piano generale, di politiche fiscali, ambientali e urbanistiche sempre più penalizzanti.
In questo contesto si comprende la richiesta del settore di una vera politica agraria. Il vincolo comunitario è in realtà solo un alibi. I margini di flessibilità e di nazionalizzazione di alcuni aspetti ci sono e ne fanno uso altri importanti paesi agricoli come la Francia, ma da noi mancano una strategia coerente e un minimo di autonoma elaborazione.
Da decenni l’Italia ha rinunciato a una politica agricola nazionale. Ciò spiega il mediocre risultato globale che tanto contrasta con i roboanti bollettini che vengono diffusi. Minore finanziamento implica minore crescita. D’altro canto è chiaro che anche sensibili incrementi della produzione non porterebbero a significativi incrementi del Pil o dell’occupazione. Anzi. Un aumento di questa, riducendo la produttività per addetto e per unità di prodotto, è in contrasto con l’aumento della redditività. L’attuale congiuntura con prezzi bassi, abbondanza di energia e di commodity, cambio debole che favorisce l’esportazione non potrà durare.
Passata la crisi servirà maggiore produttività frutto di investimenti che non ci sono stati a causa di un debito che non è stato ridotto ma dilatato. Insieme alla carenza di una politica economica agraria, questo è il vero problema dell’agricoltura.
Dario Casati
Università degli Studi di Milano