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Greening, ma quanto mi costi?
Per alcuni non poco, considerando che la componente di premio della nuova riforma legata agli aspetti ambientali inciderà probabilmente su non più di un 5% dei beneficiari italiani degli aiuti diretti, che però da soli conducono quasi un terzo della superficie agricola utilizzabile del nostro Paese.
Al pagamento del greening, come noto, è obbligatorio destinare il 30% delle risorse comunitarie riservate annualmente all’agricoltura dei singoli Stati membri e per l’Italia equivale a circa 1,1 miliardi €/anno. A conti fatti, supponendo una distribuzione uguale per tutti i produttori, si stima che il pagamento dell’inverdimento possa incidere per 120 €/ha all’inizio del prossimo periodo di programmazione, quindi dal 2015, per ridursi ai 110 €/ha regime nel 2019.
Tre impegni
Questo strumento innovativo della riforma Pac, voluto fortemente dalla Commissione, avrà come effetto che tutte le imprese agricole in possesso dei titoli base disaccoppiati saranno beneficiarie, mentre la reale applicazione, come detto, graverà su una minoranza di agricoltori. Questo per effetto del combinato di tre impegni obbligatori e delle esenzioni previste, ovvero:
– diversificazione dei seminativi: per le aziende con più di 10 ha e meno di 30 ha di seminativo sarà obbligatorio avere almeno due colture diverse; per quelle con più di 30 ha, tre colture diverse di cui principale non potrà superare il 75% della superficie e le prime due il 95% della Sau aziendale;
– mantenimento delle foraggere permanenti, quindi divieto di conversione delle foraggere permanenti (in alcune aree considerate sensibili dagli stati membri);
– creazione di aree a focus ecologico, per le aziende con più di 15 ettari di seminativo, con obbligo di convertire quest’ultimo, nella percentuale minima del 5%, elevabile al 7% dal 2017, ad aree a valenza ambientale (aree a focus ecologico), che di fatto saranno superfici sottratte dal regime produttivo per essere “congelate” a scopi ambientali, come fasce tampone, siepi e boschetti, ecc. Sono escluse da quest’ultimo adempimento, pur avendo diritto all’aiuto, le aziende che conducono i terreni secondo il metodo dell’agricoltura biologica e le aziende che coltivano foraggere, leguminose, riso o una combinazione tra esse, per almeno il 75% della superficie aziendale.
Incidenza diversa
Va da sé che l’incidenza in termini di impegni per i produttori italiani sarà molto diversificata, in funzione della tipologia delle colture praticate e della dimensione aziendale in primis, ricordando che sono escluse le colture arboree (frutta e vite). Per calare sulla realtà italiana l’effetto del greening, partiamo da alcune considerazioni operate su due realtà tipiche del nord Italia.
Tenero, mais e soia verso monocoltura
Prendiamo ad esempio due aziende, la prima di 60 ha a seminativi, che opera già una diversificazione colturale, con frumento tenero, mais e soia, in parti uguali. La seconda realtà, sempre di 60 ha, è rappresentata da un’azienda suinicola a ingrasso, con 2mila maiali, che attualmente coltiva solo mais da impiegare nell’alimentazione degli animali.
Nel primo caso, l’azienda agricola ha già diversificato le colture, in quanto aderisce agli impegni agroambientali della misura 214 dello Sviluppo rurale. Pertanto, assolve già al primo requisito del greening. Considerato che non possiede foraggere permanenti, dovrà provvedere a soddisfare il terzo requisito, ovvero la creazione di aree ecologiche.
Pertanto, dal 2015 sarà costretta a togliere dalla produzione ben 3 ha di superficie (il 5% della Sau), da destinare a scopi ambientali. Di fatto, considerando l’eliminazione di 3 ha oggi coltivati a grano tenero, avrà una diminuzione della produzione lorda vendibile di quasi 4mila €/anno (ovvero una produzione di circa 18 t di granella al prezzo di 210 €/t).
La seconda azienda, quella a indirizzo suinicolo, a parte il mantenimento delle foraggere permanenti, dovrà assoggettarsi agli altri due impegni obbligatori (avere tre colture diverse e togliere dalla produzione sempre 3 ha). Di fatto, il mais non potrà essere coltivato per più di 45 ha, impegnando la restante superficie ad altre colture. Anche in questo caso, almeno 3 ettari prenderanno la via dell’inverdimento, uscendo dalla superficie produttiva. Difficile calcolare il mancato reddito per questa seconda azienda, ma sicuramente, oltre a rinunciare a 3 ettari di mais, che fanno circa 6mila €/anno di mancati introiti, dovrà fare i conti con maggiori costi, in quanto, dovendo rinunciare a 15 ha di cereale, dovrà provvedere all’approvvigionamento sul mercato della quota mancante per alimentare i suini.
Seminativi “favoriti”
Insomma, sicuramente il pagamento all’inverdimento nuocerà soprattutto alle realtà zootecniche da carne, suina o bovina, dell’areale padano che oggi coltivano i terreni a mais. D’altro canto, sarà meno impattante per le aziende a seminativo che già operano una diversificazione, essendo strutturate con macchine agricole e possedendo requisiti manageriali per soddisfare le esigenze di una pluralità di colture.
Rimane il fatto che buona parte delle aziende del nord Italia, che mediamente possiede superfici superiori a 15 ha, dovranno rinunciare a coltivare una parte della propria superficie. E questo alla faccia di ogni logica economica.