Raccolti non particolarmente brillanti per colpa di avversità climatiche e fitopatie, aumento dei costi di produzione, prezzi medio-bassi riconosciuti dal mercato e calo dei consumi. Far tornare i conti per i frutticoltori è quasi impossibile. E poi l’inflazione, che ha caratterizzato l’annata produttiva 2022, ha generato un fortissimo squilibrio lungo la filiera dei prodotti agricoli freschi a discapito degli agricoltori, tanto che molti stanno estirpando gli impianti. A soffrire sono soprattutto pere, pesche, nettarine e uva da tavola.
Già a ottobre i dati Cia davano un +300% del prezzo medio di frutta e ortaggi nel percorso dal campo allo scaffale. In cima alla classifica del divario c’è l’uva da tavola pagata 0,42 euro al chilo mentre sui banchi di vendita il prezzo va a quasi tre euro al chilo (+574%), le mele golden (+442%) dagli 0,43 del campo ai 2,33 €/kg al consumo, mentre sul terzo scalino del podio la melanzana tonda (+299%) da 0,86 a 3,43 €/kg. Seguono le pere williams (+293%) da 0,71 a 2,79 €/kg, i finocchi (+280%) da 0,88 a 3,34 €/kg, la lattuga romana (+263%) da 0,82 a 3 €/kg, i cavolfiori (+155%) da 1,11 a 2,83 €/kg e la zucchina scura (+125%), che arriva sullo scaffale a 3,55 €/kg partendo dagli 1,58 euro dell’azienda agricola. L’ortofrutta italiana sconta ancora un forte gap infrastrutturale, con criticità nella logistica e nelle fasi di stoccaggio e distribuzione. Cia ricorda che solo per remunerare i costi di trasporto e distribuzione viene destinato il 41% del prezzo pagato dal consumatore finale. Per riequilibrare la catena del valore e potenziare il mercato interno, occorrono dunque una maggiore aggregazione fra produttori e un “patto di sistema” più equo, moderno ed efficiente con tutti i soggetti del sistema ortofrutticolo.
Costi produttivi oltre la soglia
Guardando alle analisi di Alessandro Palmieri dell’Unibo sui costi degli impianti, pubblicate in diverse occasioni sulla rivista di Frutticoltura, proviamo a sintetizzare qualche dato.
La coltivazione di un ettaro di pere Abate, la varietà di riferimento per la pericoltura italiana, impone un costo superiore a 20mila euro che si traduce in un range di 0,75-0,85 €/kg. Le quotazioni medie per la campagna in corso dovranno collocarsi su livelli ben più alti dei costi unitari per poter garantire una Plv in grado di coprire i costi sostenuti (si ricorda che dal 2015 i prezzi per il prodotto di prima categoria hanno oscillato da 0,7 a 1,1 €/kg).
Per quanto riguarda il pesco dal 2011 al 2020 sono andati persi circa 24mila ettari di impianti tra pesche e nettarine. Un calo che ha colpito prioritariamente le regioni al Nord: in Emilia-Romagna le superfici si sono ridotte di oltre 11mila ha in dieci anni. Le Plv si aggirano sui 6.500 e 8.500 euro per le pesche e tra gli 11.000 e 15.000 euro per le nettarine, mentre i costi si attestano sui 15-17mila €/ha nelle regioni settentrionali e sui 13-14mila al Sud.
Ridotta marginalità anche per l’uva da tavola. Le superfici, solo nel decennio 2012-2021, sono passate da 54mila ettari a poco più di 47mila, una riduzione che si va a sommare a un trend al ribasso iniziato ben prima. Considerando una resa media pluriennale compresa tra 25-35 t/ha, il costo complessivo può oscillare tra 0,50-0,70 €/kg per gli impianti con varietà libere e più di 0,70 euro/kg per cultivar con royalties. I prezzi riconosciuti variano da 0,60-0,70 €/kg fino a un massimo di 0,80-1,00 €/kg per le uve apirene.
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I nodi siccità e manodopera
«Quest’anno il fattore cambiamento climatico ha mostrato tutta la sua complessità – spiega il coordinatore ortofrutta di Alleanza delle cooperative Agroalimentari e presidente di Apo Conerpo Davide Vernocchi – da metà maggio a metà agosto non è caduta una goccia d’acqua e tra luglio e agosto abbiamo avuto diversi giorni con temperature altissime che hanno messo a dura prova l’attività fotosintetica delle piante. L’irrigazione a goccia, che va bene in condizioni normali, in una situazione di forte stress come quella vissuta durante l’estate 2022 non è stata sufficiente per soddisfare il fabbisogno idrico. Su questo specifico aspetto certmanete si deve rivedere la tecnica e le tecnologie (per es. l’adozione degli sprinkler). Abbiamo rischiato di rimanere senza acqua già a fine giugno ma grazie al lavoro efficiente del Cer il pericolo è stato scongiurato.
Oltretutto questa situazione meteorologica è arrivata dopo un inverno caldo, con poche precipitazioni, che ha indotto una ripresa vegetativa anticipata. Rispetto al 2021 non abbiamo avuto particolari problemi di gelate tardive anche grazie agli investimenti in tecnologie di difesa attiva fatti negli anni passati.
L’altro grande problema del 2022 è stato la manodopera, non solo nelle aziende agricole ma anche nei magazzini di confezionamento e di trasformazione. Sono mancate le persone per raccogliere la frutta e ovviamente i costi si sono alzati. Una fase, quella della raccolta, che anche in assenza di problemi rappresenta l’operazione di gestione del frutteto più onerosa. I flussi di lavoratori vanno obbligatoriamente rimodulati.
Vogliamo poi parlare degli altri costi? I prezzi dei carburanti sono più che raddoppiati in un anno, ma anche gli imballaggi, l’energia (le strutture di conservazione e lavorazione dei prodotti ortofrutticoli sono imprese energivore) e i mezzi tecnici (+35-40% per fertilizzanti e prodotti per la difesa). Poi c’è l’annosa questione del prezzo: una susina pagata al produttore 0,70 - 0,80 €/kg è una vergogna. Cosa può rimanere in tasca a chi coltiva?
Tra le colture più in crisi ci sono il pero, per colpa del cambiamento climatico, la cimice e il rialzo dei costi di produzione, e la patata per via del ferretto contro il quale non ci sono soluzioni tecniche e agronomiche efficaci (non sappiamo ancora se verrà rinnovata l’autorizzazione per il nematocida 1,3-dicloropropene). Le multinazionali stanno abbandonando il settore della frutticoltura perché sta diventando sempre più complicato registrare prodotti o difendere le autorizzazioni in essere.
È impensabile andare a chiedere a un’azienda produttrice di prodotti fitosanitari di intraprendere uno studio per un prodotto per il pero, che al massimo servirà per 10.000 ettari. Una multinazionale non ha alcun interesse economico e i costi per la formulazione di un nuovo prodotto sono altissimi.
Inoltre, pere e mele hanno risentito del problema dei calibri modesti a causa della siccità, purtroppo anche se di qualità ottima il mercato non ha riconosciuto un prezzo adeguato. A causa di tutto questo, dal 2018 al 2021 abbiamo perso il 20% dei pereti in Emilia-Romagna e ancora non sappiamo il conto del 2022. A soffrire di più è l’Abate Fetel che paga le conseguenze di scelte agronomiche sbagliate. Negli anni si è insistito molto con portinnesti nanizzanti che hanno ridotto di parecchio lo sviluppo della pianta e quindi, da un lato, si sono ridotti i costi per la gestione e la raccolta, ma dall’altro le piante sono diventate meno resilienti e hanno risentito di più delle condizioni climatiche estreme. Il problema principale ora è riuscire a produrre pere in maniera sostenibile dal punto di vista economico.
I problemi sono molti, ma le soluzioni poche. Per l’aspetto commerciale ci sono state esperienze importanti come la nascita di Unapera e l’impegno delle Op insieme alla Regione per promuovere il prodotto. Anche Opera, con le campagne pubblicitarie aveva frenato il calo dei consumi. Poi c’è il tema della ricerca. Il sistema si è trovato impreparato ad affrontare i problemi degli ultimi anni. Per quanto riguarda la cimice vediamo indicazioni importanti dagli studi che stiamo portando avanti sulla cattura massale. Altre indicazioni importanti stanno venendo sulla maculatura bruna: la pratica della rottura del cotico erboso, quindi la lavorazione del terreno, ha mostrato un contenimento dell’inoculo. Però abbiamo bisogno di una ricerca più attiva, più dinamica. Per il prossimo anno i voucher daranno una mano a mitigare il problema manodopera, mentre sulla direttiva per l’uso sostenibile degli agrofarmaci confidiamo si prenda tempo, se passa così come è scritta possiamo anche smettere di produrre ortofrutta. In merito al rapporto con la gdo, purtroppo la coperta è corta. Di questo passo arriveranno sempre più prodotti dall’estero, buttando via concetti che abbiamo costruito con fatica, come il km zero, il biologico e la sicurezza alimentare, che per i prodotti italiani sappiamo essere altissima, ma altrettanto non si può dire di quelli che arrivano da Marocco, Tunisia o Egitto».
La crisi di pere, pesche e nettarine
«Fino a qualche anno fa il calo di superfici di alcune cv tradizionali di pero era compensato dall’aumento di altre ma ormai quasi tutte le varietà presenti (anche la più diffusa Abate Fetel) tendono a scendere – commenta Elisa Macchi di Cso Italy –. La diminuzione è imputabile alla difficoltà per i produttori a creare redditività legata da una lato al crescente aumento dei costi di produzione e dall’altro alla difficoltà di raggiungere rese medie per ettaro sufficientemente elevate per diminuire l’impatto sui costi ad ettaro. Le problematiche climatiche e fitosanitarie non hanno fatto altro che acutizzare alcune difficoltà già esistenti in passato, come quella di ottenere rese unitarie elevate e la moria delle piante. Per l’Italia bisogna inoltre ricordare che l’andamento dei consumi non è positivo e gran parte del prodotto è destinato al mercato interno. Pesche e nettarine sono in calo da ormai oltre 20 anni. La produzione italiana evidenzia una forte concorrenza con la merce spagnola, che presenta costi di produzione inferiori, associati a un maggiore anticipo di commercializzazione rispetto anche alle nostre regioni del Sud. Anche in questo caso l’andamento degli acquisti al dettaglio delle famiglie non è positivo e prevale anno dopo anno il mercato interno sull’export.
Altro elemento di criticità è la frammentazione dell’offerta. Sarebbe inoltre necessaria una razionalizzazione delle varietà presenti attualmente (diverse centinaia) che per le loro peculiarità rischiano di disorientare il consumatore. Detto questo bisogna però ricordare che il vivace rinnovo varietale ha favorito lo sviluppo di produzioni dal sapore sub-acido/dolce che si avvicinano al mutato gusto del consumatore attuale in affiancamento a merce dal sapore più tradizionale.
Per quanto riguarda le mele, nel raccolto 2022 si denotano alcune problematiche legate all’andamento climatico estivo (eccessive temperature e siccità hanno favorito lo sviluppo di calibri inferiori al consueto e colorazione non ottimale) ma in termini generali la produzione denota negli ultimi anni un certa stabilità e la forte aggregazione consente una buona valorizzazione del prodotto e svariate attività di marketing».
In Emilia-Romagna si resiste a fatica
«La pera era una coltura redditizia fino a qualche anno fa ma ora non lo è più». Con queste parole amareggiate Bruno Martini, imprenditore agricolo modenese, descrive la situazione di chi fa pere in Emilia-Romagna. «Anno 2019 cimice, nel 2020 maculatura più cimice, nel 2021 maculatura più gelo, poi quest’anno siccità con conseguente mancanza di pezzatura e costi alle stelle. Il prezzo delle pere del 2022 rapportato con i costi di produzione è un vero e proprio scempio. A oggi ci sono commercianti che offrono 35/40cent/kg per William 60+. Una situazione difficilmente sostenibile e che nella nostra Regione ha causato l’abbattimento di un 30% di frutteti. Se penso al 2016, i costi di produzione per un ettaro si aggiravano sui 17mila e 16.500 rispettivamente per Abate e William. A oggi purtroppo vi è stato un aumento del 30% sui costi di produzione, diretta conseguenza dell’aumento dei costi energetici, dei prodotti per la difesa e per la fertilizzazione. In più ci sono i problemi fitosanitari ingestibili (maculatura e cimice) e una grave carenza di manodopera. La mia azienda conta 40 ha di pere (Abate, William, Conference e Kaiser), 60 ha di vite e 130 ha di seminativi tra terreni di proprietà e in affitto. Resisto un po’ per passione, ma soprattutto perché sono stati fatti investimenti importanti negli anni. Poi non è così immediato cambiare indirizzo produttivo: trovare terreni per seminativi è difficile e gli affitti sono molto cari. Gli stessi costi d’impianto sono proibitivi, le cifre vanno dai 50mila €/ha senza coperture a 90-100mila con coperture. Fare frutticoltura oggi è molto difficile e si rimane in piedi più che altro grazie alla diversificazione colturale».
Non va meglio ad Andrea Balboni, imprenditore agricolo di Sala Bolognese (Bo): «Nel giro di poco più di una decina di anni sono passato da 12 ettari di frutteti, tra pesche, mele e pere, a circa 3 ha che verranno estirpati nell’immediato futuro. In azienda coltiviamo anche orticole (patate e cipolle) e seminativi, ma la frutta la abbandoneremo definitivamente. La decisione deriva da una situazione già complessa alla quale quest’anno si sono aggiunti i costi che hanno dato il colpo di grazia». «Oltre ai costi restano forti i problemi fitosanitari - aggiunge -. Il pero in particolare ce le ha tutte: rincari, maculatura, cimice, gelate nel 2021 e poi caldo e siccità nel 2022. Tutti problemi senza una soluzione concreta e che hanno portato prima a produzioni dimezzate e, quest’anno, a una pezzatura ridotta. Quest’anno sono andate molto male anche le patate scottate dal sole e devastate dal ferretto non avendo prodotti fitosanitari efficaci per combatterlo».
Anche le mele accusano il colpo
Se le prime indicazioni sulle dinamiche di mercato suggeriscono un primo semestre 2023 di più facile gestione, in particolare per una disponibilità di prodotto non particolarmente alta ma di ottima qualità, il peso dei costi di produzione inizia drammaticamente a farsi sentire - riporta Assomela -. Il peso dei costi di produzione per la conservazione e lavorazione delle mele è stimato in circa 0,12 €/kg, ai quali vanno aggiunti circa 0,04 €/kg di costi assorbiti al livello delle aziende di produzione primaria.
Questi maggiori costi possono arrivare a erodere un terzo circa della liquidazione finale ai frutticoltori, che mediamente può aggirarsi attorno a 0,40 – 0,45€/kg. Una mole di costi che rischia di minare l’equilibrio economico di migliaia di aziende frutticole. Innanzitutto, l’invito a restare compatti nella richiesta all’Ue di ritirare la proposta di regolamento sull’impiego di fitosanitari e di rivedere sostanzialmente la proposta di uso del packaging e della riduzione degli imballi di plastica che potrebbero ulteriormente indebolire la competitività del sistema, aggiungendo nuovi costi e incertezze ai produttori. In parallelo servirebbe un confronto con tutti gli attori della filiera, per ricercare soluzioni in grado di migliorare le performance di lavoro, ad esempio con la razionalizzazione della logistica e del packaging, delle modalità di utilizzo dei mezzi di produzione, oppure in collaborazioni orientate alla migliore valorizzazione del prodotto allo scaffale. È evidente che passi di efficientamento del sistema sono non solo possibili, ma urgenti per aumentare la marginalità a beneficio di tutti gli attori di filiera.
Al Sud disastro per l’uva da tavola, male pure fragole e clementine
Contro la crisi di mercato che rende sempre più difficile investire in frutteti, tendoni e agrumeti servirebbe una distribuzione più equa del valore lungo la filiera frutticola. Questa la richiesta dei produttori lucani di fragole e drupacee e di quelli pugliesi di ciliegie, uva da tavola e clementine, per dare prospettive sostenibili alle loro aziende. Resa più pressante, negli ultimi mesi, dall’aumento dei costi di gasolio, fertilizzanti, agrofarmaci, film plastici e trasporti e da una generale caduta della domanda di frutta, schiacciata dall’inflazione e dalla priorità data loro malgrado dai consumatori al pagamento di bollette di energia elettrica e gas sempre più care.
Mario Santarcangelo, della Società agricola Fratelli Santarcangelo di Scanzano Jonico (Mt), circa 20 ha a fragola, conferma che «tutti i mercati generali italiani che forniamo hanno diminuito gli ordinativi. E nel pieno della produzione il prezzo delle fragole di qualità è sceso a livelli non accettabili. Abbiamo fatto bene a non aumentare le superfici investite e per il 2023 le diminuiremo di un terzo, tagliando varietà poco produttive».
L’annata 2021 di nettarine, pesche e albicocche, prima considerata negativa, è stata rivalutata dai frutticoltori metapontini in confronto con i risultati pessimi del 2022. Pezzatura media abbastanza piccola per problemi di natura climatica, costi di produzione, raccolta, lavorazione e imballaggio aumentati, prezzi di vendita troppo bassi e calo dei consumi hanno spinto diversi produttori a sospendere la raccolta prima del previsto.
Per Savino Muraglia, presidente di Coldiretti Puglia «non è ammissibile che le pregiate ciliegie Ferrovia vengano pagate appena un euro o poco più al chilogrammo, mentre i costi sono raddoppiati e i prezzi al consumo nella grande distribuzione sono decisamente più alti, anche 3-4 volte e oltre in più».
«Iniziata bene, la campagna dell’uva da tavola ha vissuto poi una grossa crisi» afferma Lorenzo Gassi, che coltiva 10 ettari a varietà con semi e apirene a Rutigliano (Ba). «Le apirene precoci hanno spuntato buoni prezzi - racconta - poi è stato un disastro. Manovre commerciali speculative hanno privilegiato le apirene brevettate. Le uve tradizionali con semi, Michele Palieri, Red Globe e Italia, non hanno quasi avuto mercato: grosse quantità (fra cui 600 quintali di Italia della mia azienda) sono state smaltite in cantina, a 0,06-0,08 €/kg, per produrre succo d’uva. Ancora oggi ci sono tantissimi tendoni pieni di Italia non raccolta. Anche le apirene tardive, come Regal, sono rimaste in gran parte invendute».
Per le clementine della provincia di Taranto i prezzi sono così bassi, 0,45-0,50 €/kg, da cui bisogna togliere 0,14-0,16 €/kg per la raccolta manuale, da spingere i produttori a minacciare la sospensione della raccolta, informa Floriano Convertino, agrumicoltore di Massafra (Ta). «Siamo stati subito contattati da buyer di numerosi Paesi europei, segno che le nostre clementine sono conosciute e apprezzate, ma non possiamo tollerare per noi prezzi da fame, mentre la Gdo le vende fino a 4-5 euro al chilo».