Tra i tanti problemi in cui si dibattono i produttori di latte per far quadrare i conti dei propri allevamenti, ce ne sono tre di cui si parla molto in Italia senza però il supporto di dati che diano la giusta interpretazione della situazione. Si tratta di burocrazia, costi di adeguamento (“compliance”) alle normative comunitarie e, ultima in ordine di tempo ma non meno preoccupante, la possibilità che venga introdotto anche in Italia l’utilizzo del latte in polvere nella produzione casearia.
Ora un po’ di chiarezza sui numeri è stata fatta da Confagricoltura, Cia e Coldiretti, nel corso del convegno “I costi di produzione del latte in Italia e in Europa”, organizzato il 4 febbraio scorso a Fieragricola Verona dall’Informatore Zootecnico e da Nova Agricoltura.
Cortesi: la montagna di carte costa 1,4 centesimi al litro
La burocrazia, ha esordito Alberto Cortesi, responsabile Sezione economica latte di Confagricoltura Mantova, «è un argomento che mette di malumore perché il suo costo per gli allevatori è pesantissimo». Finora si trattava di una percezione, legata soprattutto al tempo impiegato per produrre documenti e compilare moduli.
Ma ora cominciano a emergere dati precisi. Secondo la Cgia di Mestre, la burocrazia costa alle Pmi italiane 26,5 miliardi di euro l’anno; e rispetto a poco più di un anno fa questa “tassa occulta” è aumentata di 3,4 miliardi di euro, mettendo a segno un preoccupante +14,7%.
Il problema è sentito anche a livello comunitario, tanto che Phil Hogan, commissario europeo all’Agricoltura, alla fine del 2014 aveva affermato: «Semplificare la Pac e tagliare la burocrazia, queste sono le mie priorità per il 2015».
«In attesa di vedere i risultati di questa dichiarazione d’intenti, Confagricoltura - ha ricordato Cortesi al convegno - ha letteralmente “pesato” la burocrazia del Psr 2007-2013: in media ogni pratica italiana è stata pesata 2 kg, pari a 500 pagine, con punte di 10 kg e 2mila pagine nelle regioni peggiori. Che il peso della burocrazia in Italia fosse più alto che altrove lo si sapeva, ma adesso ne abbiamo la conferma: per la stessa pratica, in Germania nella regione del Brandeburgo in media è stato compilato “solo” 1 kg di carte».
Ma non è solamente il Psr a pesare. In provincia di Mantova, una concessione edilizia per un fabbricato rurale pesa 1,9 kg e non va meglio se si misura la burocrazia in termini di tempi di compilazione e di attesa, poco quantificabili in termini monetari ma certamente molto costosi.
Secondo uno studio realizzato da Confagricoltura - ha detto Cortesi - per predisporre una domanda di primo insediamento servono mediamente 1 o 2 mesi, ma per circa il 5% delle pratiche possono servirne da 7 a 12. Per le misure di ammodernamento, l’88% degli imprenditori le predispone in 2 mesi, ma all’11% servono da 7 mesi a un anno. Di pari passo, l’erogazione dei contributi avviene per il 95% dei giovani dopo oltre 7 mesi e per il 63% si supera addirittura l’anno. Per gli investimenti aziendali, invece, la liquidazione del contributo avviene per il 94% dopo oltre 7 mesi e per il 65% dopo l’anno.
Esempi ce ne sarebbero ancora molti, basterebbe fare l’elenco degli adempimenti a cui un allevatore deve sottostare per averne un’idea: adempimenti fiscali, gestione dipendenti, tenuta registri di stalla e di campagna, Uma, Pac, Psr, rifiuti, sicurezza e tanti altri (figura 1).
«Oggi è così e domani uscirà qualcosa d’altro - ha detto Cortesi - ad esempio gli allevatori di Mantova d’inverno devono frequentare il corso per posizionare le trappole per le nutrie».
Facendo un po’ di conti, i costi per Pac/Psr per un allevamento di 150 vacche in lattazione in pianura padana sono pari a 21.000 euro l’anno (in figura 2 il dettaglio delle voci), senza conteggiare i costi dei ritardi dei pagamenti. “Dividendo per i 1.500.000 di litri di latte prodotto annualmente nella stessa stalla, si ha un costo per litro latte di 1,4 centesimi (figura 3), pari al 3,1% del costo totale di produzione. In pratica, con l’attuale prezzo di 36 centesimi/litro, ben 58.333 litri di latte servono per coprire i soli costi della burocrazia”.
Sisinni: il 7% costi per ambiente, sicurezza alimentare, benessere
Finora non era stato fatto uno studio specifico sul’incidenza dei costi di conformità (o di “compliance”) sul costo totale del latte in Italia. Ma dopo l’indagine realizzata dal Crpa per la Commissione europea su cinque stati dell’Ue (Finlandia, Germania, Irlanda, Olanda e Polonia) e due extra Ue (Nuova Zelanda e Argentina), per verificare se le normative su tutela dell’ambiente, benessere animale e sicurezza alimentare incidessero sulla competitività del latte comunitario sul mercato mondiale (vedi IZ n. 18/2015), la Cia ha deciso di fare un’analisi ”qualitativa” per stimare questi costi nel nostro Paese.
Un’analisi che, ha auspicato al convegno di Verona Giacomo Sisinni, responsabile nazionale zootecnia della Cia, «dovrebbe essere approfondita con le istituzioni preposte, come è stato fatto per altri Stati membri».
Nel suo studio il Crpa aveva selezionato e valutato l’incidenza dei costi di compliance di un gruppo di Direttive e Regolamenti comunitari relativi a protezione dell’ambiente, benessere animale e sicurezza alimentare (figure 4 e 5), mentre per i Paesi terzi era stata scelta una legislazione simile ed equivalente a quella comunitaria, oltre a norme private obbligatorie e condizioni essenziali per esportare nell’Ue.
I risultati del Crpa, ha spiegato Sisinni, «hanno evidenziato che i costi di conformità nei Paesi esaminati variano tra l’1 e il 3% dei costi totali e differiscono maggiormente tra gli Stati membri che tra Stati membri e Paesi terzi. Ciò è dovuto principalmente a differenze nella struttura delle aziende agricole nell’Ue e al grado di adeguamento alle normative».
Inoltre, ha precisato Sisinni, «i Paesi terzi protagonisti sul mercato globale tendono ad adottare una maggiore legislazione rispetto a Paesi che un ruolo non ce l’hanno».
I risultati per i diversi Paesi sono sintetizzati nelle figure 6 e 7.
Lo studio Crpa non aveva interessato il caso italiano. Ma ricalcando lo studio Crpa, per l’Italia la Cia ha stimato dei costi di conformità più alti di almeno 3-4 volte la media dei costi di conformità riscontrati nei Paesi esaminati e pari a 6-7% del costo totale di produzione.
Questa differenza, ha spiegato Sisinni al convegno, è dovuta «al modello produttivo italiano, di qualità ma ad alta intensità e frammentato, e con ancora una limitata integrazione tra zootecnia ed energie rinnovabili (produzione di biogas), con conseguenti alti costi di gestione».
Al di là della media, comunque, ci sono aziende con costi superiori ma anche allevamenti che hanno costi simili a quelli rilevati dal Crpa e questo per condizioni esterne, sia territoriali che dovute alle diverse efficienze delle pubbliche amministrazioni regionali.
Cosa fare per ridurre questa voce di costo? Per la Cia si tratta di ottimizzare la gestione dell’allevamento ad esempio migliorando la gestione delle condizioni di salute e benessere degli animali ed aumentando le rese produttive unitarie, riducendo i costi di rimonta, diminuendo l’età di primo concepimento e dell’interparto, allungamento la carriera produttiva delle vacche.
Oppure di adottare un’economia circolare, con il recupero dell’azoto, la produzione di biogas, la riduzione dell’apporto proteico della razione, migliorando la gestione delle deiezioni e delle fertilizzazioni, ma anche con un efficientamento dei controlli e la riduzione dei costi burocratici, maggiori investimenti per l’implementazione delle innovazioni e, non ultime, la valorizzazione e la promozione della qualità italiana anche all’interno di accordi filiera (Libro Bianco) promossi dal Mipaaf.
Apostoli: il latte in polvere dimezza i costi dei caseifici
Parlare di latte in polvere in un contesto nazionale in cui è vietato utilizzarlo, ha spiegato al convegno del 4 febbraio Giorgio Apostoli, responsabile Zootecnia di Coldiretti, «serve per ragionare dei problemi che gli allevatori italiani hanno già oggi con l’industria di trasformazione».
I dati sono questi: il nostro Paese produce 110 milioni di quintali di latte, di questi metà vengono utilizzati per produrre i circa 45 formaggi a denominazione di origine italiani, per i quali il latte fresco deve essere del territorio di produzione. Il restante 50% viene trasformato in mozzarelle vaccine, stracchini, yogurt e altri formaggi generici. «In questo caso – ha fatto notare Apostoli – il latte è italiano, ma rimane anonimo per il consumatore».
Ciò permette ai trasformatori di imporre ai produttori condizioni insostenibili, come quella che si sta verificando in Puglia, per non parlare sempre della Lombardia, dove, ha raccontato Apostoli a Verona, «nei caseifici stanno informando che caleranno il prezzo del latte di 4 centesimi al litro, mettendo gli allevatori di fronte al fatto che se il prezzo non verrà accettato il latte non verrà ritirato e verrà acquistato altrove a un costo inferiore».
Dato l’anonimato del latte usato, il trasformatore potrà vendere la mozzarella prodotta con latte non pugliese, pur lasciando intendere che è latte pugliese. «In realtà - ha spiegato Apostoli - la mozzarella viene già prodotta normalmente con semilavorato cagliato, anche di provenienza estera». Infatti, l’Italia lavora 10 milioni di tonnellate di cagliata importata ogni anno da vari Paesi, tra i quali Germania, Polonia e Lituania, che hanno quintuplicato in poco tempo la quantità esportata nel nostro Paese.
«Con costi di produzione certamente più alti di quelli del nord Italia, se continua così i produttori pugliesi saranno costretti a chiudere».
Con il latte in polvere, che costa 200 euro a tonnellata, produrre mozzarelle e yogurt costerebbe alle industrie di trasformazione la metà rispetto all’utilizzo di latte italiano, quindi se un domani venisse introdotta questa possibilità gli allevatori italiani non avrebbero futuro.
Per correre ai ripari «quello che noi vorremmo - ha dichiarato Apostoli - è semplice: che il formaggio e le trasformazioni casearie fossero fatte solo con il latte che arriva dalla stalla e che per tutti ci fosse l’obbligo di scrivere in etichetta che è stato usato latte, o cagliata o caseine o altri prelavorati industriali». Questa è la grande sfida per il territorio, perché se il calo delle aziende è fisiologico non bisogna sottovalutare che in Italia ciò ha portato al dimezzamento del loro numero nel giro di pochi anni.
Per non trovarsi alla fine con solo qualche grande azienda in zone ristrette, «l’unica strada - ha concluso Apostoli - è di legare la produzione di latte al territorio e anche le produzioni casearie al territorio. Il vino insegna».
L’articolo completo è pubblicato su Informatore Zootecnico n. 5/2016