La nuova Pac non piace e non è un errore contestarla

Esempio di un appezzamento di terreno, condotto in agricoltura biologica e conservativa negli ultimi 5 anni. Le difficoltà di ripulire il terreno dalle specie infestanti hanno avuto come conseguenza, dopo copiose piogge, la perdita della coltura Pisello proteico a vantaggio delle infestanti che lo hanno completamente soppiantato.
L’architettura verde voluta da Bruxelles e sostenuta dal piano strategico nazionale usa la sostenibilità come un alibi. Distrae gli agricoltori dall’obiettivo primario della sicurezza alimentare. Causerà la chiusura di molte aziende stritolate dal taglio dei contributi. Perché mai non si dovrebbe criticare tale impostazione?

La nuova Pac non piace e non è affatto un errore contestarla, nonostante i regolamenti siano ormai approvati e tornare indietro sia quasi impossibile.

L’ipocrisia dell’architettura verde

Ciò che gli agricoltori criticano non sono infatti i nuovi vincoli sugli avvicendamenti o l’imposizione del taglio netto della chimica ecc., ma il fatto che si vogliano far passare tali restrizioni come ricette di sostenibilità quando sembrano invece mirare al solo obiettivo di ridimensionare l’impatto della Politica agricola sul bilancio comunitario.

Un intento che può essere lecito, ma senza dover accusare d’insostenibilità un comparto come quello agricolo. L’unico veramente interessato, e non da oggi, alla tutela delle risorse non rinnovabili da cui trae il proprio reddito.

Questa mia precisazione è stimolata dalla lettura dell’articolo di Roberto BartoliniLa nuova Pac non piace, ma è un errore contestarlasulle pagine digitali de “Il nuovo agricoltore”. Un articolo che demoralizza molti imprenditori agricoli con cui collaboro e che applicano da tempo soluzioni per coniugare reddito e sostenibilità, senza puntare agli applausi, ma nemmeno ai rimproveri di chi sostiene l’ultima riforma della Pac, ma andiamo con ordine.

Obiettivi traditi

Il sostegno che gli agricoltori italiani ricevono attraverso l’applicazione della Politica Agricola Comune, come si legge sul sito della Commissione Europea (https://agriculture.ec.europa.eu/common-agricultural-policy/cap-overview/cap-glance_it) si pone come obbiettivi:

  • sostenere gli agricoltori e migliorare la produttività agricola, garantendo un approvvigionamento stabile di alimenti a prezzi accessibili;
  • tutelare gli agricoltori dell'Unione europea affinché possano avere un tenore di vita ragionevole;
  • aiutare ad affrontare i cambiamenti climatici e la gestione sostenibile delle risorse naturali;
  • preservare le zone e i paesaggi rurali in tutta l'UE;
  • mantenere in vita l'economia rurale promuovendo l'occupazione nel settore agricolo, nelle industrie agroalimentari e nei settori associati.

Un taglio netto degli aiuti

Siamo all’inizio della nuova programmazione, ma già sappiamo che l’applicazione del Piano strategico nazionale per la Pac 2023-2027 (Psp) determinerà una forte riduzione degli importi erogati in favore delle aziende agricole italiane.

Se prendiamo a confronto la programmazione precedente, appena conclusa, le imprese strutturate, che conducono una superficie superiore a 45 ettari, accusano già una riduzione nel sostegno al reddito che varia dal – 20% fino al – 40%, su base annuale 2023 rispetto a quanto percepito nel 2022. Tale forchetta varia in funzione degli “impegni ambientali” che ogni agricoltore decide di attuare.

Se è vero, come dimostriamo da tempo su Terra e Vita, che l’agricoltura italiana è tra le più performanti al modo dal punto di vista della sostenibilità, che negli ultimi 7 anni in Italia c’è stata, ad esempio, una riduzione del 20% dell’uso di prodotti fitosanitari (indagine della Fondazione Symbola), che la diversificazione colturale è già, per cultura, segno distintivo delle nostre pratiche agricole, visti gli obiettivi della PAC sopra elencati, questa riduzione al reddito delle aziende agricole italiane stride parecchio con gli obiettivi dichiarati da Bruxelles.

Un cambio di passo o un passo indietro?

Il messaggio dell’Ue, ribadito nel Psp, è secondo quanto ribadisce anche Bartolini: “Cambiare mentalità”.

Ma quando si addebita agli agricoltori italiani di essere ancora condizionati dalla tradizione e che è necessario “un cambio di passo nella gestione della terra e dei suoi prodotti e aumentare le conoscenze e la professionalità”, vale la pena ricordare che:

  • l’agricoltura italiana emette il 46% di gas serra in meno della media delle altre nazioni europee;
  • ha il minor numero di prodotti agroalimentari con residui di pesticidi (0,48%);
  • siamo il sesto paese al mondo per ampiezza delle superfici a biologico,raggiungendo, al 31 dicembre 2021, una superficie condotta con metodo biologico pari a 2.186.570 ettari;
  • la transizione ecologica e digitale è uno degli elementi che sta portando, non da oggi, ad un aumento delle aziende agricole a conduzione giovanile, un trend da non frustrare con il taglio dei contributi e con pregiudizi sterili.

La pretesa di insegnarci il mestiere

Questi dati ci devono far riflettere. Se, come è vero, l’agricoltura italiana è già il fiore all’occhiello del più ampio panorama europeo, questo infatti avviene grazie alla professionalità e all’impegno degli agricoltori. Le nuove regole della condizionalità rafforzata (le Bcaa) e gli eco-schemi, volendo insegnare il mestiere di agricoltore a chi lo pratica da anni, rischiano invece di frapporre altri, poco utili, limiti all’operatività di aziende che hanno dimostrato nei fatti di riuscire ad essere allo stesso tempo eccellenze produttive e custodi della biodiversità.

Rigenerare il suolo è fondamentale e questo l’agricoltore lo sa! Ma siamo davvero sicuri che lo si possa fare, ad esempio, con la BCAA 8? Questa pratica prevede il 4% superficie agricola destinata a superfici o elementi non produttivi, un limite non da poco per aziende strutturate e dalla maglia poderale estesa. Le moderne pratiche agricole, il progresso tecnologico, la genetica come la chimica, hanno dimostrato nel tempo di essere validi sostegni per la produttività ma anche per un più sostenibile uso del suolo, che non dobbiamo dimenticare rappresenta il bene di maggior valore per l’agricoltore.

La moda dell’agricoltura rigenerativa

L’agricoltura rigenerativa oggi va di moda. Anche se il 58% dei sostegni per lo sviluppo rurale è destinato al bio, e solo il 17% alla gestione virtuosa del suolo, come ricorda Bartolini, attrae comunque proseliti agitando davanti agli occhi degli agricoltori la prospettiva dell’arrivo di premi per l’impegno per lo stoccaggio di CO2 nel suolo, quando invece il mercato dei crediti di carbonio volontari è al minimo storico.

Generalizzare sull’applicazione delle tecniche conservative di uso del suolo, senza ter conto della mutevole natura dei terreni che compongono il territorio del nostro paese, del tipo di colture praticate e del tipo di gestione delle risorse naturali, rischia però di essere un’imposizione semplicistica e verticistica di tecniche che possono non risultare le migliori da applicare.

Di fronte a quelle che possono risultare, alla conta dei fatti, “distrazioni” occorre ribadire perciò che il fine ultimo dell’attività agricola rimane quello di dare un reddito ai produttori, ma anche di garantire la sicurezza alimentare, ovvero un approvvigionamento stabile di alimenti a prezzi accessibili.

Se l’agricoltura chiude bottega, il consumatore che ci guadagna?

A chi auspica un ritorno all’agricoltura pre-rivoluzione verde, senza chimica, genetica e con poca meccanica, come capitava in Italia nel secondo dopoguerra, uno scenario molto simile al “ritorno della natura” che alcune linee ecologiste estremiste vorrebbero applicare, occorre ricordare che le rese per ettaro erano molto inferiori a quelle odierne, rendendo il nostro Paese e tutta Europa fortemente dipendente dalle importazioni dal nuovo continente.

Se è vero che l’architettura verde corrisponde alle richieste dei consumatori e che è l’Europa che ci chiede di fare di più, ma con meno, chi sarà poi disposto a compensare gli extra costi e le perdite di reddito in termini di sussidi e produzioni? Sarà anche vero che “se non si ascoltano i clienti, ben presto si chiude bottega”. Ma se si chiude bottega chi ne fa le spese? Solo gli agricoltori o anche i consumatori? Siamo sicuri che questa sia davvero la rotta maestra?

Come ha ricordato Eugenio Occhialini nel suo recente editoriale: «Il nostro auspicio è che davvero il settore primario torni al centro dell'interesse delle istituzioni e della politica a tutti i livelli, si abbandonino le teorie accusatorie sulle cause del cambiamento climatico che hanno guidato le scelte della Ue degli ultimi anni».

 

Leggi la controreplica di Roberto Bartolini

Nuova Pac, chi punta alla salute del suolo è già “a dama”

 

La nuova Pac non piace e non è un errore contestarla - Ultima modifica: 2023-05-31T14:53:28+02:00 da Lorenzo Tosi

1 commento

  1. Finalmente!
    Complimenti per avere il coraggio di dire la verità su quanto certe ideologie possono creare dei danni irreversibili ad un intero comparto europeo, favorendo indirettamente gli altri competitors internazionali che non vedono l’ora di poter accedere facilmete al mercato europeo che sarà fortemente deficitario di prodotti agricoli ( controllati e sicuri), con i loro prodotti che invece non hanno nessun vincolo e possono essere prodotti con impatti ambientali molto maggiori di quanto stiamo facendo noi agricoltori europei, che invece veniamo costantemente denigrati e mazziati con norme e vincoli ormai innaccettabili ed insostenibili.
    Ci vuole un cambio di passo e di mentalità da parte di Bruxelles, noi agricoltori stiamo lavorando alacremente per rendere la nostra attività sempre più sostenibile, ma la strada per la sostenibilità deve essere tracciata dalla scienza e dalla ricerca e non dalle ideologie ambientaliste e dalla politica che non considera minimamente chi sa fare veramente agricoltura, ma cerca unicamente il consenso, giusto o sbagliato che sia delle masse che la votano.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento
Per favore inserisci il tuo nome