L’aratura è l’emblema dell’agricoltura: i campi da arare sono stati il sogno di molti agricoltori italiani. Simpaticamente, lo dice una canzone dei Dik Dik “Viaggio di un poeta”:
Lasciò il suo paese all’età di vent’anni con in tasca due soldi e niente di più (…).
Promise a se stesso di non ritornare al vecchio paese della sua gioventù dove nessuno voleva sognare i campi d’arare e niente di più”.
Ancora oggi l’aratura è il simbolo dell’agricoltura meccanizzata: “… sognare campi d’arare e niente di più”. Invece è l’emblema di una concezione di agricoltura vecchia, banalizzata e antieconomica, basata sull’ideologia dell’aratro. Molto spesso gli agricoltori amano più l’attrezzo che il reddito.
L’aratura è una delle tante possibilità di gestione del terreno e di preparazione del letto di semina. Non va esclusa in assoluto, ma va utilizzata nei casi di effettiva esigenza agronomica e di comprovato vantaggio economico: casi molto limitati. L’obiettivo è la gestione del terreno e la preparazione del letto di semina, non l’aratura. Ciò implica una grande attenzione a tutti gli aspetti: sostanza organica, struttura, fertilità compattamento, arieggiamento, erosione, finestre temporali per entrare in campo, mantenimento dell’acqua, gestione residui colturali, consumo di gasolio.
La gestione del terreno e la preparazione del letto di semina richiedono attenzione e professionalità; l’aratura tende a semplificare e molto spesso è antieconomica. Non a caso, l’aratura viene utilizzata dagli agricoltori tecnicamente meno preparati. E, soprattutto, l’aratura profonda a 40-50 cm fa molto male al terreno con gravi conseguenze che, anche se non sono direttamente osservabili, comportano la perdita di fertilità con costi enormi.
L’aratura produce zolle che poi devono essere sminuzzate: ciò richiede gasolio, notevoli emissioni in atmosfera, compromissione della fauna terricola e della sostanza organica.
Invece, le tecniche di minima lavorazione hanno dimostrato – nella maggior parte dei casi – vantaggi tecnici e convenienza economica.
Le tecniche di minima lavorazione del terreno si stanno diffondendo nel nostro paese molto lentamente, perché prevale ancora un approccio ideologico alla preparazione del terreno.
Le tecniche di gestione conservativa del terreno (minima lavorazione, semina su sodo, strip-tillage) richiedono una nuova modalità di gestione, attuata con professionalità e pazienza, evitando i calpestamenti eccessivi e una corretta gestione dei residui colturali o delle cover crops.
Le obiezioni sono tante, ad esempio “come far produrre la terra senza lavorarla?”
Spesso l’agricoltore adombra il timore che non si riesca a fare un buon lavoro, soprattutto se siamo in presenza di abbondanti residui colturali. I vantaggi economici sono dimostrati da tanti agricoltori: riduzione del consumo del carburante, e dei tempi di lavorazione, aumento delle fasce temporali per entrare in campo, miglioramento della fertilità. Senza contare i vantaggi ambientali: contenimento delle emissioni, riduzione delle erosioni superficiali e miglioramento di struttura e portanza dei terreni.
L’aratura e l’aratro sono il simbolo della “potenza” dell’agricoltore, invece molto spesso sono una perdita economica.
Meglio seppellire gli aratri, piuttosto che dire “si è sempre fatto così”. Meglio non “sognare campi d’arare”. L’aratro va usato solo in casi di vera utilità, invece bisogna puntare alla gestione moderna del terreno e della preparazione del letto di semina.
Editoriale su Terra e Vita 21