Nell’anno in cui si è inaugurato il “Distretto sud” per il pomodoro da industria i risultati economici della specie sono stati molto deludenti.
«I motivi di quando si è verificato – ci dice Antimo Pedata – Agronomo che opera nel settore, sono sia di natura tecnica sia di natura commerciale. Dal punto di vista colturale, la scarsa organizzazione dei produttori ha comportato un ingolfamento del mercato. Infatti, stante la contemporaneità dei trapianti, si è assistito a un accavallamento dei cicli produttivi con le raccolte che si sono concentrate in periodi ristretti. Ciò ha provocato il ritardo della lavorazione da parte delle industrie e la perdita di prodotto in campo che è rimasto non raccolto».
Negli ultimi anni, nelle aree agricole delle province di Napoli e Caserta, territorio tradizionalmente vocato alla coltivazione del pomodoro, le superfici destinate alla specie sono raddoppiate, passando dai 1.600-1.700 ettari del 2012 ai 4.500 del 2015: 3.500 nelle province di Caserta e Napoli e il resto a Salerno. Il rilancio di questa coltivazione è stato favorito dal notevole know out degli agricoltori campani che, sfruttando le ottime caratteristiche dei terreni agricola della regione, sono in grado di ottenere ottime produzioni sia dal punto di vista quantitativo sia qualitativo.
«A fronte di una media nazionale di 700-800 q/ha in Campania si ottengono produzioni medie di 1.000 q/ha – ci riferisce Raffaele Tamburrino, tecnico che segue le Associazioni dei produttori –. Inoltre, i frutti raggiungono un contenuto in residuo secco nettamente superiore a quello che si ottiene in altri areali produttivi e ciò è particolarmente apprezzato dall’industria di trasformazione».Le cooperative, inoltre, tramite le Op hanno usufruito dei fondi europei messi a disposizione per il settore, per innovare il parco macchine.
«Questa scelta - continua Pedata - se da un lato ha consentito alle aziende di dotarsi di macchine trapiantatrici e di strumentazioni per la raccolta meccanica all’avanguardia, dall’altro lato ha determinato la concentrazione delle produzioni. Inoltre, alcuni orticoltori non hanno avuto l’oculatezza di proporzionare le superfici investite con le potenzialità delle macchine raccoglitrici, ritrovandosi nell’impossibilità di raccogliere una parte della produzione».
Non raccolti quasi 500 ettari
La stima delle superfici non raccolte è di circa 400-500 ettari distribuiti tra le province di Napoli, Caserta e Salerno.
«Le perdite economiche – conferma Tamburrino – si sono rivelate, in alcuni casi, ingenti. Ciò testimonia una diversa capacità di organizzazione della parte produttiva rispetto a quella industriale che, viceversa, si è anche avvantaggiata di questa situazione usufruendo dello “sconto” del 10% sul prezzo, pattuito in fase di contratto».
Nella realtà industriale meridionale, d’altronde, solo poche industrie si dedicano a produzioni con ottime caratteristiche, accontentandosi, spesso, di produrre un prodotto di media qualità.
«Meno complicata la situazione dei produttori pugliesi e di quelli della provincia di Salerno, – spiega il nostro interlocutore –, che possono avvalersi di una migliore organizzazione commerciale e di più numerose alternative colturali».
I produttori campani delle province di Napoli e Caserta, in definitiva, sono penalizzati sia commercialmente sia tecnicamente.«Da un lato – spiega Pedata – devono confrontarsi con una parte molto forte e ben preparata, rappresentata dall’industria, dall’altra non sono ben organizzati e non hanno grandi alternative, stante anche la difficoltà in cui versa il settore zootecnico che non aiuta i produttori a diversificare verso la produzioni di mais da foraggio».Va infine sottolineato che l’ottima qualità del prodotto campano è solo parzialmente valorizzata e, soprattutto, da parte di industrie del nord. «Nel prossimo futuro – conclude Pedata – si assisterà a un rafforzamento della posizione dei produttori settentrionali, mentre nel meridione, Campania e Puglia in primis, ci sarà una notevole contrazione degli investimenti».
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