Nuove opportunità nel diradamento del melo. Si tratta di una pratica strategica per questa coltura. Con un ruolo fondamentale nel massimizzare il reddito dei produttori, garantendo una produzione di qualità (sia in termini di pezzatura e colore) e rese elevate e costanti, senza alternanze negli anni. Non mancano però le insidie: il diradamento richiede conoscenza e abilità tecnica. Il 2014, in particolare, è stato un anno problematico per la gestione di questa pratica, soprattutto nella fase dell’allegagione, che è risultata particolarmente abbondante anche a causa di un andamento climatico invernale mite. L’efficienza dei diradanti non è sempre stata soddisfacente, al punto che nell’area vocata della Val di Non i frutticoltori per salvaguardare la qualità hanno dovuto impiegare 200-300 ore di lavoro manuale per ettaro. La 18a edizione della giornata tecnica sulla frutticoltura delle Valli del Noce, che si è tenuta recentemente a Cles (Tn), ha fornito l’occasione per approfondire questa pratica e tutti i principali problemi della frutticoltura d’avanguardia.
Pre e post fiorali
«Il diradamento chimico – spiega Massimo Prantil, tecnico storico del Centro di trasferimento della Fondazione Mach – è una pratica che va gestita allestendo precise strategie (si veda figura)». I prodotti a disposizione si dividono in:
- diradanti fiorali (Ethephon, ammonio tiosolfato, polisolfuro di Ca);
- diradanti post-fiorali (Amide –NAD; 6-Benzyladenina –BA; Acido alfa-naftalenacetico –NAA).
Unica alternativa al diradamento chimico al fine di un contenimento dei costi è il dirado meccanico da effettuare in fase di bottoni rosa, possibile però solo in terreni pianeggianti e con sistemi di allevamento a fila stretta.
«La novità interessante per quest’anno – riferisce il ricercatore –, è quella di una nuova molecola: Metamitron (marchio commerciale Brevis), particolarmente consigliata su Fuji e Gala, varietà piuttosto problematiche da diradare, ma anche su Golden Delicious nelle situazioni di forte allegagione». Metamitron è un prodotto importante anche perché diverse molecole hanno una registrazione che scade fra il 2017 e il 2021. Agisce riducendo la capacità fotosintetica della pianta e aumentando la competizione per i fotosintetati tra germogli e frutti e il suo periodo di applicazione è post-fiorale. La maggiore efficacia si registra con condizioni di bassa radiazione solare, alte temperature notturne e clima umido.
«Nelle prove effettuate nel 2014 – spiega Prantil – con un notevole lavoro di completamento manuale siamo riusciti ad ottenere una media in Valle di 630 quintali di mele/ha di buona qualità». Ma la regolazione della produzione si inizia fin dalla potatura, ricorda l’esperto, una buona potatura mette la pianta nelle migliori condizioni per non avere un eccesso di fiori e quindi di potenziali frutti quando in annate come nel 2014 si ha una allegagione senza precedenti.
La selezione di “Darwin”
«La forma di allevamento delle piante da frutto rappresenta infatti uno snodo che condiziona l’agrotecnica e la difesa dai patogeni». È il commento di Alberto Dorigoni della Fondazione Mach, il “padre” putativo del diradamento meccanico in Trentino. Per anni ha sperimentato un’attrezzatura a base di un asse verticale con inseriti dei fili di plastica denominata “Darwin” per il diradamento meccanico dei frutteti in fase di fioritura. L’operazione è consigliata sia dal punto di vista tecnico che ecologico in quanto riduce l’uso della chimica. Ha inoltre ideato una nuova macchina per potare, oggi brevettata dalla Fondazione Mach e presente con circa 50 esemplari sia in Europa che in America. Ma chi coltiva ancora i frutteti a pianta larga come si può comportare? «La conversione da frutteti larghi a stretti – risponde prontamente Dorigoni – è tecnicamente possibile nella maggioranza dei casi. Premesso che ormai in tutto il mondo, anche dove la coltivazione a pianta larga è ancora diffusa, si guarda con interesse crescente alla coltivazione del frutteto in parete». Dorigoni afferma tutto ciò con cognizione di causa in quanto le sue consulenze su questo tema sono richieste oltre che in tutta Europa anche oltre oceano. «Perfino in Valle di Non – continua –, zona che ha sperimentato l’allevamento a pianta larga tra il 2000 e il 2010, ormai la maggior parte dei frutteti è allevata in filari a pianta stretta». La scelta, prosegue l’esperto, è ormai irreversibile, anche perché le indicazioni sono tutte a favore dell’allevamento a parete che esce vincitrice nel confronto tecnico sia per la riduzione degli input di manodopera, che per la riduzione nell’uso della chimica nei frutteti, che lascia più spazio alla meccanica, come pure per la semplificazione della difesa.
Il vantaggio delle file strette
«Un frutteto costituito da file strette e basse – precisa –, apre un ventaglio di possibilità tecniche, dalla meccanizzazione del diradamento al diserbo, dalla potatura estiva a quella invernale, fino alle reti polifuzionali e agli atomizzatori a ultra bassa deriva». Tutte le operazioni sono facilitate, con la fila stretta. Non solo la potatura sia manuale che meccanica è facilitata, come pure l’eventuale diradamento sia chimico che manuale: agevolata risulta anche la piegatura dei rami, che viene di fatto superata, la raccolta manuale oltre alla gestione delle cime. «Un altro capitolo – sottolinea l’esperto –, è quello della difesa: con la fila stretta si usano meno volumi di bagnatura riducendo di conseguenza la quantità di prodotto distribuite per ettaro. Inoltre l’asciugatura delle piante è più rapida ed in certi momenti ciò è molto importante, si ha inoltre meno deriva e si semplifica l’applicazione delle reti polifunzionali». Dal punto di vista agronomico si ottiene una qualità migliore e più omogenea della frutta, senza rinunciare ad una produzione abbondante. «In conclusione – ribadisce Dorigoni –, la gestione delle piante condiziona tutta l’agrotecnica e può portare a costi di produzione inferiori e contribuisce a ridurre i problemi di convivenza tra frutticoltura e ambiente».