Tra aflatossine e rese in calo addio anche all’ultima commodity con raccolti vicini all’autosufficienza.
Mentre a livello
mondiale sale
l’allarme sulla
consistenza degli stock, in
Italia esplode il deficit con
l’estero. Il mais, l’ultima
grande commodity per la quale
l’Italia poteva vantare livelli
di approvvigionamento vicini
all’autosufficienza, entra di
diritto a far parte della lista
che rende l’industria alimentare
nazionale sempre più dipendente
dall’estero. I dati Istat
parlano di una produzione
2012 crollata a 8,2 milioni di
tonnellate (-12% in un anno),
cifra che porta per la prima
volta il tasso di autoapprovvigionamento
al di sotto dell’80
per cento.
Tra allarme aflatossine e rese
in calo anche per il granoturco
si sta delineando una situazione
di dipendenza dall’estero,
come già accade ad
altri settori chiave del made in
Italy alimentare. In primis al
grano, tenero e duro, il cui
deficit si aggira mediamente
intorno al 50% (con una pericolosa
crescita negli ultimi anni),
alla base della produzione
di pasta, pane e dolci. Il caso
più eclatante resta quello della
soia, ingrediente alla base della
filiera della più famosa
Dop italiana, il Parmigiano
reggiano, dove i raccolti nazionali
non arrivano al 20% del
fabbisogno, e il mercato mondiale
è caratterizzato dall’oligopolio
di Stati Uniti, Brasile
e Argentina che producono da
soli il 90% della soia mondiale.
In gran parte, Ogm. Problema
non secondario che riguarda
anche il mais, con buona
pace degli attivisti antibiotech:
o si importa o si smantella
una parte della produzione.
La cosiddetta «clausola di salvaguardia
» chiesta dal ministro
delle Politiche agricole,
rappresenta in realtà un falso
problema di fronte alla realtà
dei numeri. Nei primi quattro
mesi della campagna 2103
l’industria mangimistica ha aumentato
del 41% il ricorso alle
importazioni, con l’Ungheria
ormai stabilmente in testa
alla classifica dei fornitori, potendo
contare su prezzi inferiori
fino al 40 per cento.
In base ai dati presentati in
occasione della tradizionale
giornata del mais che si è tenuta
la scorsa settimana a Bergamo,
poco meno della metà (il
44,9%) del mais prodotto nel
mondo è geneticamente modificato.
Di questo, ben l’80%
viene coltivato negli Stati Uniti,
che ancora non risultano
fornitori dell’Italia (ma sono
anzi alle prese con le polemiche
sulla destinazione di una
quota sempre più rilevante del
raccolto nazionale alle bioraffinerie
per la produzione di
etanolo, quota che la Fao chiede
di limitare). L’andamento
delle importazioni italiane mostra
però una crescita vertiginosa,
dall’autosufficienza dei
primi anni Novanta al picco
di 2,6 milioni di tonnellate di
due anni fa. Quasi tutte di provenienza
Ue, ma di questo
passo...
mondiale sale
l’allarme sulla
consistenza degli stock, in
Italia esplode il deficit con
l’estero. Il mais, l’ultima
grande commodity per la quale
l’Italia poteva vantare livelli
di approvvigionamento vicini
all’autosufficienza, entra di
diritto a far parte della lista
che rende l’industria alimentare
nazionale sempre più dipendente
dall’estero. I dati Istat
parlano di una produzione
2012 crollata a 8,2 milioni di
tonnellate (-12% in un anno),
cifra che porta per la prima
volta il tasso di autoapprovvigionamento
al di sotto dell’80
per cento.
Tra allarme aflatossine e rese
in calo anche per il granoturco
si sta delineando una situazione
di dipendenza dall’estero,
come già accade ad
altri settori chiave del made in
Italy alimentare. In primis al
grano, tenero e duro, il cui
deficit si aggira mediamente
intorno al 50% (con una pericolosa
crescita negli ultimi anni),
alla base della produzione
di pasta, pane e dolci. Il caso
più eclatante resta quello della
soia, ingrediente alla base della
filiera della più famosa
Dop italiana, il Parmigiano
reggiano, dove i raccolti nazionali
non arrivano al 20% del
fabbisogno, e il mercato mondiale
è caratterizzato dall’oligopolio
di Stati Uniti, Brasile
e Argentina che producono da
soli il 90% della soia mondiale.
In gran parte, Ogm. Problema
non secondario che riguarda
anche il mais, con buona
pace degli attivisti antibiotech:
o si importa o si smantella
una parte della produzione.
La cosiddetta «clausola di salvaguardia
» chiesta dal ministro
delle Politiche agricole,
rappresenta in realtà un falso
problema di fronte alla realtà
dei numeri. Nei primi quattro
mesi della campagna 2103
l’industria mangimistica ha aumentato
del 41% il ricorso alle
importazioni, con l’Ungheria
ormai stabilmente in testa
alla classifica dei fornitori, potendo
contare su prezzi inferiori
fino al 40 per cento.
In base ai dati presentati in
occasione della tradizionale
giornata del mais che si è tenuta
la scorsa settimana a Bergamo,
poco meno della metà (il
44,9%) del mais prodotto nel
mondo è geneticamente modificato.
Di questo, ben l’80%
viene coltivato negli Stati Uniti,
che ancora non risultano
fornitori dell’Italia (ma sono
anzi alle prese con le polemiche
sulla destinazione di una
quota sempre più rilevante del
raccolto nazionale alle bioraffinerie
per la produzione di
etanolo, quota che la Fao chiede
di limitare). L’andamento
delle importazioni italiane mostra
però una crescita vertiginosa,
dall’autosufficienza dei
primi anni Novanta al picco
di 2,6 milioni di tonnellate di
due anni fa. Quasi tutte di provenienza
Ue, ma di questo
passo...