Siamo in piena città, lungo il Naviglio Pavese, a neanche cinquecento metri da uno dei cuori pulsanti della movida milanese. L’impressione, però, è quella di trovarsi altrove: c’è odore di botti, sulla destra la macchina imbottigliatrice, di fronte la grande vetrata trasparente con i serbatoi in acciaio per la vinificazione e lo stoccaggio, la pigiatrice per le uve, il torchio.
«Una volta che hai varcato la soglia del locale potresti essere in piena campagna. Siamo produttori di vino. È questo il messaggio che voglio trasmettere, è questo il centro del progetto». A raccontarlo è il suo ideatore, Michele Rimpici, veronese, 40 anni appena compiuti e un solido passato nel mondo del vino.
«Sono laureato in filosofia con una tesi sul giornalismo enogastronomico. Il mio sogno era diventare giornalista, poi la strada è leggermente deviata». L’ingresso nel settore avviene come sommelier nel campo della ristorazione, con esperienze a Londra in ristoranti stellati. Michele entra poi in Cavit, prima come responsabile per il mercato UK e successivamente come export manager Europa. Segue il rientro in patria, in Toscana, dove lavora per due importanti realtà vinicole. Nel 2011 è a Verona, dove incontra Veronesi, presidente del Gruppo Calzedonia. Insieme avviano il progetto Signorvino, che oggi conta 15 store in tutta Italia.
«A fine 2017 ho deciso di cambiare, di provare a fare qualcosa di mio. Il sogno, come tutti quelli che lavorano in questo campo, era avere il mio vino. Il punto è che sono un ragazzo di città, non ho terreni di famiglia, né una base da cui partire. Perciò ho pensato di intraprendere la strada opposta: parto dal mio vino e arrivo ai terreni. Quelli che in questi anni ho conosciuto e apprezzato». Nasce così la Cantina Urbana.
Da dove nasce l’idea?
«Lo spunto concreto – spiega Rimpici - l’ho avuto grazie a un viaggio a New York. Ero a Brooklyn e mi sono imbattuto in una urban winery, ossia una cantina di città, gestita da due ragazzi. Ho trovato l’idea stupenda. Ne ho visitate diverse, soprattutto in California. In Europa, Londra a parte, si tratta di un format ancora emergente. Oggi ce ne sono una a Parigi e una ad Amsterdam».
Perché Milano?
«Ho pensato a Milano perché in questi anni è diventata una città cosmopolita, dinamica, frizzante, aperta alle novità, in continuo sviluppo. C’è anche un altro aspetto da considerare: qui non c’è tradizione vitivinicola, non ci sono produttori. Milano è una grande piazza di consumo».
Produrre vino in città rappresenta una situazione inedita. Quali sono gli svantaggi e quali i vantaggi?
«Ovviamente bisogna uscire dallo schema di comunicazione classico del settore – afferma Rimpici -, ossia il terroir. Noi non siamo legati alla terra, non abbiamo nessuna indicazione, siamo liberi. Andiamo al senso contrario rispetto il marketing: partiamo dal vino per arrivare alla vigna. Superato questo “ostacolo” è chiaro il vantaggio: siamo alla portata di tutti, sotto casa e abbiamo la possibilità di condividere subito con la gente il frutto del nostro lavoro». Gente curiosa, che cerca la novità, l’esperienza, condita magari da un pizzico di conoscenza. La Cantina, aperta dallo scorso ottobre, offre da inizio anno anche il servizio wine bar con aperitivo e cena, organizza serate a tema, eventi privati, degustazioni. Grande attenzione anche alla personalizzazione del prodotto: è possibile creare il proprio blend dal vivo o avere una bottiglia su misura, con etichetta personalizzata. “Extra” che attualmente incidono per il 50% sul fatturato.
Chi è il consumatore/cliente che si rivolge alla Cantina Urbana?
«Andiamo dal pensionato che abita qua dietro e viene a riempire le bottiglie, al superprofessionista modaiolo, all’appassionato di vino. Tanti i giovani, anche studenti del settore. Siamo un luogo unico. Quello che voglio dire però – puntualizza il giovane - è che questo non è un progetto hipster di un sognatore. È qualcosa di concreto, radicato. Con me lavorano un enologo (Riccardo), un cantiniere (Denis) e un responsabile dell’accoglienza (Francesco). Abbiamo i vasi vinari, la pigiatrice per le uve, il torchio, le anfore di terracotta e barriques per gli affinamenti, tutti gli strumenti di lavoro di una comune cantina. E poi ovviamente cerchiamo di piazzare il prodotto con una distribuzione “tradizionale”, su ristoranti ed enoteche».
Parliamo allora di vino. Da dove arriva la materia prima? Cosa si produce?
«Abbiamo una decina di fornitori, piccoli produttori vinicoli che ho conosciuto nel corso degli anni, che condividono la mia visione artigianale del vino e che hanno da subito creduto nel progetto».
Le uve oggi arrivano dal Veneto, dall’Oltrepò Pavese, dalla Toscana, dal Piemonte, dall’Abruzzo e dal Molise. In prospettiva dovrebbe unirsi anche la Sicilia. «Intercetto la prima scelta dell’uva e compro poca quantità, selezionata. Arriviamo a una capienza massima di 160 ettolitri, con un potenziale produttivo di 20 mila bottiglie l’anno. A oggi siamo a 6mila bottiglie, cui si aggiungeranno ad aprile le 4 mila della nuova linea Naviglio». Michele rifugge dalle etichette. «Non ho bisogno di etichette, né certificazioni. Siamo noi la garanzia. Lavoriamo in maniera sartoriale, selezionando l’uva che ci piace. Siamo artigiani, ossia professionisti che fanno un lavoro a mano, in quantità limitate. E ci mettiamo la faccia».
Faccia che oggi è rappresentata da due linee di vino: i “Milano” e i “Tranatt”, cui si aggiungeranno ad aprile i vini “Naviglio”. «I “Milano” – bianco e rosso – sono vini freschi, leggeri, adatti a tutte le occasioni. Tranatt – bianco, rosso e rosato - era invece l’osteria della vecchia Milano, dove si beveva il vino che arrivava in treno dal Sud. Da qui il nome. Si tratta di vini realizzati con un connubio di uve del Nord e del Sud con particolari selezioni varietali, vinificate separatamente e poi unite e affinate in anfora di terracotta. Sono vini con struttura, che rappresentano bene lo spirito della città». Ad aprile infine farà la sua comparsa il Naviglio (bianco e rosso), prodotto realizzato con uve dell’Oltrepò pavese raccolte ai primi di ottobre. «Questa è una dedicata alla tratta del Naviglio e al suo carico commerciale». La Cantina offre infine lo “sfuso” - «che noi preferiamo chiamare fresco»: si tratta di quattro varietà, comprate già pronte dai piccoli produttori fornitori, che a cadenza più o meno mensile vengono sostituite.