Condizioni climatiche avverse, frammentazione produttiva, volatilità dei prezzi e della redditività, sono le principali cause che negli ultimi anni hanno influito negativamente sulla produzione di olio d’oliva in Italia. Questo calo produttivo è ormai purtroppo strutturale. Lo ha spiegato Denis Pantini di Nomisma nel corso del convegno Olio di oliva: impresa, sostenibilità, mercati”, organizzato da Confagricoltura.
L’indagine Nomisma sulla filiera olivicola
Nell'ultimo triennio (2020-2022) la produzione media di olio di oliva in Italia è stata pari o inferiore alle 300mila tonnellate, contro le oltre 500mila del triennio 2010-2012.
L’olivo nel nostro Paese rappresenta la coltivazione più diffusa, ma il tessuto produttivo è frammentato e spesso orientato all’autoconsumo. Sono circa 620mila le aziende olivicole sul territorio e di queste il 42% non arriva a 2 ettari di Sau, e solo il 2,5% oltre 50 ettari. La superficie investita ad olio è diminuita del 3,5% dal 2011 al 2021.
Olio, Italia primo consumatore al mondo e secondo esportatore
Con 8 kg di consumo pro-capite (486mila ton 2022/2023) l’Italia è il primo consumatore al mondo, e il secondo esportatore con 343mila tonnellate per un valore di 1,5 miliardi di euro (2021), dietro la Spagna leader indiscusso.
L’export di olio evo, cresciuto soprattutto sul fronte dei valori e non dei volumi, è concentrato in Europa e nel Nord America, ma una quota importante arriva nei paesi dell’Est. Il medio oriente è un’area che sta crescendo negli ultimi anni.
Olio Dop, se ne vende solo il 2%
I rincari dei costi energetici e degli input produttivi hanno ridotto la redditività delle aziende e generato inflazione al consumo. 4 italiani su 10 acquistano l’olio presso Gdo. Il prezzo medio di vendita sullo scaffale è di 5,27 euro al kilo. Dato negativo per quanto riguarda gli acquisti di olio dop: se ne vende poco più del 2%.
Come evidenziato dallo studio, il biologico e le Dop, per quanto in crescita, rappresentano ancora una nicchia per il sistema olivicolo italiano.
«Fare filiera e svolta culturale»
«Nei periodi di forti incertezze come quello attuale, sul quale incidono anche i cambiamenti climatici, “fare filiera” attraverso gli accordi commerciali dà agli olivicoltori una maggiore sicurezza di sbocco di mercato e favorisce un processo di investimento/modernizzazione necessario per tutto il comparto. Ad oggi – ha puntualizzato Pantini – meno del 3% delle imprese agricole italiane vende attraverso accordi pluriennali con imprese industriali/commerciali.
Inoltre – ha concluso – è ancora troppo alta la percentuale di consumatori che ritiene l’olio d’oliva un semplice condimento e non un prodotto-cibo. Una differenza sostanziale che permetterebbe di generare valore per l’intera filiera, grazie alla minor dipendenza delle scelte del consumatore dal solo fattore prezzo».
L’accordo di filiera
Lo studio Nomisma ha preceduto la celebrazione dell’accordo di filiera siglato tra Confagricoltura e Carapelli Firenze nel 2018 con lo scopo di promuovere la produzione e la filiera dell’olio di oliva extravergine italiano. Centinaia le aziende olivicole coinvolte e circa 25 milioni di euro il valore al consumo dell’olio frutto dell’accordo.
Il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti ha sottolineato: «Oggi, dopo cinque anni, a valle di un lavoro intenso di scambio e di confronto, possiamo affermare con soddisfazione che l’intesa con Carapelli Firenze è un’esperienza di successo, che ha anticipato i tempi e che sicuramente faremo proseguire per condividere sfide sempre più innovative e stimolanti».
«Piano olivicolo deve diventare realtà»
«Il settore olivicolo è fondamentale per il nostro Pese. Per aumentare produttività e fare economia di scala dobbiamo costruire consorzi, progetti di filiera, e nuovi modelli basati su tecniche di coltivazione diverse. La tecnologia e la ricerca applicata devono essere la guida per la costruzione di questi nuovi modelli. Dobbiamo farci trovare pronti per il piano olivicolo, che deve diventare realtà. Sono anni che se ne parla ma ancora manca. Dobbiamo recuperare competitività, tornare più forti sui mercati. Per fare questo – ha concluso Giansanti – serve un piano di strategia e rilancio, soprattutto per il Salento».
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