Il commercio mondiale, uno dei motori dell’agroalimentare italiano, sarà sempre più guidato da accordi bilaterali rispetto all’approccio multilaterale inseguito negli ultimi decenni. Sembrerebbe questa la conclusione da trarre considerando i risultati della decima riunione ministeriale in sede Wto e, parallelamente, il procedere del negoziato Ttip.
In dicembre, a Nairobi, all’incontro al massimo livello dell’Organizzazione mondiale del commercio è emerso chiaramente che la conclusione del “Doha round”, il processo negoziale globale partito quindici anni fa in Qatar, non è più una priorità. Anzi, per qualche paese, Stati Uniti in testa, non avrebbe più senso investire in un negoziato impostato nel 2001, quando la principale questione sul tappeto era la mole di sussidi diretti (accoppiati) all’agricoltura in Usa e Ue, un problema ormai superato dalle diverse riforme delle politiche agricole tra le due sponde dell’Atlantico.
Tutti i prodotti agricoli e trasformati
Detto questo, la riunione ministeriale Wto non si è conclusa senza decisioni di rilievo. È stato infatti raggiunto un accordo (Nairobi package) sulla cessazione di ogni forma di sostegno pubblico diretto all’export. Ciò varrà già da quest’anno per i paesi sviluppati, mentre scatterà dal 2018 per i paesi in via di sviluppo, per i quali a Nairobi è stata anche istituita una speciale clausola di salvaguardia da attivare in caso di importazioni particolarmente invasive in un certo comparto.
L’accordo sugli aiuti all’export è un punto importante perché vale per qualsiasi prodotto agricolo ma soprattutto trasformato nelle diverse filiere dell’agroalimentare. Anche se si deve sottolineare che nell’Ue i sussidi diretti alle esportazioni, tanto usati in passato, sono da qualche anno in standby. I paesi Wto potranno dunque sostenere le proprie esportazioni ma con strumenti indiretti.
Si moltiplicano i negoziati bilaterali
Peraltro anche su questo fronte a Nairobi sono state ristrette le possibilità di azione: per esempio il credito bancario agevolato erogabile agli esportatori non potrà superare la durata di 180 giorni; oppure si prescrive di correggere in senso restrittivo le normative nazionali sugli aiuti alimentari (un canale talvolta utilizzato per alleggerire il mercato interno di un prodotto in crisi di eccesso di offerta).
Per il resto, sul tema del commercio internazionale, il clima a livello mondiale è cambiato – tanto da spingere il direttore generale della Wto Roberto Azevedo a interrogarsi sulla funzione futura dell’Organizzazione – e all’obiettivo di riportare tutto a un unico foro si è passati alla moltiplicazione delle forme di negoziazione bilaterali.
Seppur di ampia portata, come il Ttp (Trans-pacific partnership) tra Stati Uniti e altri paesi del Pacifico da poco conclusosi e il Ttip (Transatlantic trade and investment partnership) in pieno svolgimento. Quest’ultimo ci interessa da vicino, perché ciò che si sta cercando è un accordo di libero scambio tra Ue e Stati Uniti. Viene coinvolta la più vasta area commerciale mondiale e, di nuovo, l’agroalimentare è al centro degli interessi in gioco. Molti parlano di opportunità soprattutto per l’ortofrutta e per le filiere dei formaggi europei: da questo punto di vista l’Italia, con le sue Dop casearie, ha grosse aspettative.
I negoziati procedono un po’ a rilento. Forse troppo, tanto che nei giorni scorsi il commissario europeo all’Agricoltura Phil Hogan ha espresso preoccupazione su una conclusione prima della fine del mandato di Obama; perché poi le cose potrebbero cambiare.
Ma cosa può aspettarsi l’Italia dal negoziato Ttip? Luci e ombre, assicurano gli esperti.
Innanzitutto un esito positivo del negoziato comporterebbe per il nostro Paese un incremento delle importazioni dagli Usa di commodities agricole, un fenomeno già consolidato. Ma comporterebbe anche un aumento significativo delle esportazioni delle nostre eccellenze lattiero-casearie. Una manna dal cielo per attenuare l’attuale crisi da eccesso di offerta e scarsa domanda interna.
Cosa può aspettarsi l’Italia dal Ttip
Perché ciò accada è però necessario che si risolvano alcuni nodi fondamentali del negoziato. A cominciare dalle modalità di etichettatura dei prodotti per una corretta informazione al consumatore americano. Su questo sarà necessario trovare un punto di equilibrio tra la l’idea di matrice europea di un’etichetta che esplicitamente indichi la provenienza dei prodotti e la proposta americana di utilizzare un assai meno immediato bar code o Qr code. Ma soprattutto al centro della battaglia negoziale in corso vi sono le indicazioni geografiche. L’Ue, e l’Italia in primis, preme perché il sistema statunitense riconosca e tuteli le indicazioni di origine. Un passo che, insieme all’etichetta, innalzerebbe un argine formidabile al fenomeno dell’Italian sounding che penalizza moltissimo il nostro agroalimentare. Su tutto ciò gli Stati Uniti sono assai recalcitranti, ma si sta trattando, e proprio recentemente in occasione della visita del segretario americano all’Agricoltura Tom Vilsack al Parlamento europeo, si è intravisto qualche spiraglio.
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