“Olistico” è uno degli aggettivi che mi piacciono meno (mi dà quasi un fastidio fisico), ma per la comprensione dei fenomeni quello che è necessario è proprio un approccio “olistico”, che per quanto riguarda il settore biologico di frequente manca.
Per esempio è mancato del tutto quando, dopo una decina d’anni di costante crescita sia del numero di operatori che delle superfici, abbiamo registrato dal 2001 al 2004 un altrettanto costante discesa di ambedue gli indicatori.
La stampa, che per anni aveva titolato sul “boom” del biologico, ci dette in coro per defunti, scrisse di crisi, di fuga di produttori e consumatori e di altre piaghe d’Egitto.
L’altalena del Psr
Il motivo principale del crollo, molto banalmente, risiedeva nei Psr.
L’andamento delle conversioni e del mantenimento del metodo biologico seguiva con assoluto parallelismo la curva delle misure agro-ambientali della Pac e, dal 2001 al 2004, per una congiunzione astrale, in molte regioni i piani andavano in scadenza.
Tant’è che i 7.798 agricoltori biologici della Sardegna nel 2001 collassavano a 1.754 nel 2004: più di 6mila operatori scomparsi dal radar in soli quattro anni (-77.5%), sulla carta, un’ecatombe.
Le 6.470 aziende pugliesi si dimezzavano nello stesso periodo (-52.6%), passando da 6.470 a 3.065, le 7.807 aziende calabresi si riducevano a 4.075, con un pesante -47.8%, la stessa perdita che si registrava in Sicilia (da 12.225 aziende a 6.388), in Campania da 1.782 aziende si scendeva a 1.095.
Impennate di crescita
Il che non impediva di registrare nello stesso periodo una crescita di oltre il 200% in Basilicata (da 656 aziende a 1.985), del 20.8% in Toscana, del 26% in Trentino Alto Adige del 13% nelle Marche.
C’era qualche ragione agronomica o di mercato a far sì che in soli quattro anni le aziende lucane triplicassero mentre quelle di tutte le regioni confinanti si dimezzassero?
Personalmente dicevo e direi tuttora, proprio no: l’andamento era pacificamente guidato dai premi per gli impegni agro-ambientali (e guai a scandalizzarsi, il Psr serve proprio a promuovere determinate tecniche di produzione e di gestione).
Moderazione degli entusiasmi
Potremmo anche ricordare che qualche dirigente costruì le proprie fortune nello scalcinato associazionismo di settore proprio su un andamento ante 2001 del quale, a ben vedere, poteva vantare pochi meriti, ma questo è un altro discorso.
Un approccio “olistico” avrebbe moderato i toni trionfanti del 2001 e contenuto quelli funerei del 2004.
Pochi anni dopo, con la crisi finanziaria globale avviata nel 2007, analisti fatti con lo stampino e tirati su ad analisi SWOT e Nutella®, ma che non avevano mai visto un trattore né un muletto in vita loro, davano il settore per spacciato: “Il consumatore non ha più un Euro in saccoccia, ci sarà la rincorsa al primo prezzo e nessuno vorrà più i vostri prodotti che costano un occhio della testa”.
Consumatori autonomi
Amleto, però, da quattro secoli buoni, ammoniva: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”, e i consumatori han continuato ad acquistare prodotti biologici infischiandosi degli analisti..
Anzi, le vendite (in Gdo, visto che a differenza degli altri grandi mercati europei, i dati del canale specializzato italiano sono un buco nero) sono aumentate per quattro anni di fila inanellando incrementi dal 10 al 13%, per altri tre anni dal 16 al 19%, per poi crescere più moderatamente per altri quattro.
Il corso più scalcagnato di marketing inizia presentando le quattro leve decisionali prodotto, prezzo, posto e promozione (fortunatamente ce n’è di meno scalcagnati).
Cestinare prodotto, promozione e posto, considerando solo la leva del prezzo fa rigirare nella tomba Jerome McCarthY, tutti gli altri che ragionavano di marketing mix già 60 anni fa e chi ci ragiona adesso.
Analisti disattenti
Se il prezzo fosse l’unica leva decisionale, gireremmo tutti in Dacia Sandero, Kia Picanto e Mahindra KUV100 (le tre auto più economiche sul mercato italiano), mentre solo una delle tre è tra le 10 più vendute (e tra le prime dieci ce n’è che costano più del doppio).
Il consumatore, evidentemente, è attento al prezzo, ma anche alla qualità complessiva che percepisce, a sicurezza, comfort, consumi, impatto ambientale, spazio nel bagagliaio, optional, velocità, estetica e chi ne ha ne metta.
E questa attenzione, anch'essa “olistica”, del consumatore non riguarda solo le automobili, riguarda anche il cibo: un approccio più olistico avrebbe aiutato gli analisti affrettati e superficiali.
“Andrà tutto bene”…
E veniamo ai giorni nostri.
Magari qualcuno ha rimosso il ricordo, ma sforzandosi un po’ tornano in mente i primi giorni della psicosi Covid, con i negozi presi d’assalto, gli scaffali svuotati e le dispense riempite di carta igienica (misteri della vita) e di ogni alimento a lunga conservazione, con gli italiani a cantare De Gregori su terrazzi addobbati con gli striscioni (ottimisti, ma l'abbiamo saputo più tardi) "andrà tutto bene".
1) Non erano acquisti “normali”, erano scorte per affrontare un periodo di cui non si conosceva la durata. Non è lecito attendersi che, a regime normale, gli acquisti superino quelli di una fase eccezionale: passato il periodo più teso, cominci a smaltire le scorte (e finché hai scorte, non acquisti prodotti nuovi).
2) Al momento dell’accaparramento, scomparsa dagli scaffali per prima la pasta Barilla®, al consumatore non biologico non è rimasto che acquistare quel che c’era, la pasta biologica, poi quella al Kamut®, poi quella ai grani antichi artigianale. Finito il Pomì® non gli è rimasto che acquistare la passata biologica, magari anche di pomodorino del Piennolo, e poi via di ceci, lenticchie e scatolame. Le vendite di biologico nella fase di picco hanno goduto del fatto che i prodotti convenzionali erano in rottura di stock: si trattava di acquisti non come prima opzione, ma purchessia: ritornata l’offerta completa, si è ristabilita la gerarchia delle preferenze.
3) Nei mesi di lockdown si mangiava a casa (tutti eran diventati fornai, il lievito di birra ha avuto un successo straordinario). Il consumatore biologico acquistava più prodotti del solito perché doveva preparare più pasti. Finito lo smart working, ha ripreso a fare colazione al bar, a mangiare in mensa o un panino o un’insalatona al bar. Il numero dei pasti è sostanzialmente anelastico, non si fanno due cene o due pranzi. Se a pranzo mangi un panino non biologico al bar, non fai un pranzo biologico a casa, è la dura legge delle calorie. E finché nella ristorazione commerciale non ci sarà un’apprezzabile offerta biologica, un pasto fuori casa in più non bilancia un pasto a casa in meno.
4) Credo non sia una mia evidenza empirica e aneddotica, ritengo che il fenomeno sia diffuso: ho ripreso a uscire a cena. Ogni cena che faccio fuori casa è una cena in meno a casa, visto che non duplico i miei pasti; bene o male una cena fuori è circa un 7% di spesa domestica settimanale in meno; uscissi a cena due sere a settimana, sarebbe un -14% di spesa domestica. È un motivo per cui sarebbe bene concentrarsi sul food service, cercando di renderlo complementare e non alternativo al retail e ai relativi consumi domestici.
5) Vacanze estive, week end. Anche qui, un week end a Firenze vuol dire un secco -28% di consumi domestici settimanali rispetto al periodo (eccezionale) in cui eravamo chiusi in casa. Due settimane in montagna pesano per un brutale -50% di consumi domestici mensili, che da soli voglion dire un -4% annuo. Altra riflessione: quest’anno in Trentino il punto vendita di un’insegna abitualmente abbastanza fornita di prodotti biologici presentava un’offerta assolutamente deludente (neanche un quarto dei prodotti a marchio presenti nell’assortimento in pianura, pochissimo prodotto fresco e davvero poco fresco), con strategia commerciale assai dubbia, come bisognerebbe far presente.
Per cui, una visione “olistica” mi porta a dire: certo, c’è una fascia di consumatori più provata dalla crisi pandemica e post pandemica, e bisogna assolutamente tenerne conto, ci mancherebbe.
Attenzione però…
a) Le vendite della primavera 2020 erano assolutamente eccezionali, drogate dall’effetto scorta e dal fatto che non c’era verso: si doveva mangiare a casa. Non ci si può legittimamente attendere che in condizioni normali (o quasi) gli acquisti aumentino rispetto a quelli del tutto straordinari.
b) Il consumatore non ha abbandonato il biologico solo perché ha cominciato a utilizzare i prodotti coi quali aveva riempito la dispensa (mica poteva lasciarli lì), perché è tornato in ufficio e si fa un panino al bar, ha ripreso ad andare in pizzeria o si è fatto due settimane di ferie. Senza le variabili della crisi energetica connessa all’invasione dell’Ucraina e della crisi di governo avrei scommesso su una stabilizzazione e ripresa a primavera 2023. Due variabili rendono l'equazione più incerta.
Bisogna lavorare sull’identità (posizionamento)
Quindi, tutto va ben, madama la marchesa?
No, per niente. E sbagliano i dirigenti delle organizzazioni che a Sana parlano di ripresa in corso, se non altro perché ad ascoltarli sono operatori che perdono il sonno per le bollette energetiche impazzite e per il volume delle vendite in calo rispetto a quelle che, troppo ottimisticamente, consideravano stabilmente acquisite
Nel 1902 Lenin scrisse “Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento” e, in realtà, in questa fase il settore biologico (c'è ancora il movimento?) non ha ben chiaro “che fare”, sballottato tra chi vede come unica via d’uscita la filiera corta e il consumo a km zero, chi confida in un improponibile marchio nazionale come volano per i consumi, chi individua la magica risposta nella blockchain e nei QRcode.
90 anni dopo, nel 1992, su “Largo Consumo” un Luca Salomone (come tutti 30 anni più giovane di adesso) titolava il primo denso studio sul nostro mercato “Biologici: successo senza identità”.
Ecco, direi che siamo ancora lì, il problema è l’identità (che vuol dire posizionamento) con cui proporsi al consumatore, alla distribuzione (e al food service, se si vorrà finalmente iniziare), su cui vanno avviate riflessioni collettive e vanno sviluppate manovre coordinate.
Il Dr. Pinton é come sempre un attento conoscitore della materia, di cui ha anche una appprofondita conoscenza storica dell’evoluzione, dall’ inizio ad oggi. Si concentra però sulla domanda privata, mentre una parola in più meriterebbe la domanda pubblica, sulla quale bisogna ancora spingere di più. Va anche considerata l’offerta: quella nazionale, per alcuni prodotti, é insufficiente. Troppi percettori dei sostegni per il bio non immettono in realtànulla sul mercato.
come sempre Roberto coglie il nocciolo del problema.
I volumi del Bio sono aumentati e poi diminuiti per situazioni che non hanno nulla a che fare con il Bio.
La società è stata sconvolta da fenomeni assolutamente imprevedibili ( Covid, rincari energetici, guerra in Ucraina)
Non dimentichiamo le difficolta in produzione causa le condizioni climatiche che non hanno certo aiutato i mercati.
E’ vero dobbiamo dare un’identità al biologico soprattutto ora che si parla di residuo zero.
MANGIO BIO PERCHE’ AIUTO IL PIANETA A NON MORIRE ( penso a tutti)
Mangio residuo zero per aiutarmi (forse) a non morire ( penso a me stesso).
Il bio non inquina, il residuo zero sì ( basta rispettare i tempi di carenza dopo aver trattato )
Il residuo zero mette a carico della comunità tutti i costi per l’avvelenamento delle acque e dell’ambiente.
Il bio rispetta l’ambiente e quindi anche te stesso prendendosi in carico tutti i costi per una gestione corretta dell’ambiente