Si poteva fare più in fretta? Forse no, dato che la guerra in Ucraina è scoppiata il 24 febbraio, quando le semine di alcune colture erano già state ampiamente pianificate o, al Sud, addirittura cominciate. Allora forse si poteva dare meno enfasi a un provvedimento che a detta di tutti gli operatori del settore non risolve i problemi di approvvigionamento di grano e mais dell’Italia e degli altri Paesi europei, né permette alle aziende agricole di incrementare in maniera apprezzabile il reddito, eroso in maniera importante dal rincaro del prezzo dei mezzi tecnici, del gasolio e dell’energia elettrica.
Per l’Italia le deroghe al greening e alla diversificazione delle colture decise dall’Ue a fine marzo consentono di “recuperare” in linea teorica circa 200mila ettari di Sau. Tra le regioni più interessate Campania con 10.500 ettari, Lombardia con 11.000, Veneto con 12.300 ettari, Piemonte con 17.544, Emilia-Romagna con 20.200. Qualche vantaggio c’è stato soprattutto nelle zone irrigue del Nord e solo marginalmente al Cento-Sud, dove le semine sono anticipate. Le colture più seminate sono state mais, girasole, soia, sorgo e leguminose. Nei terreni più permeabili e nelle zone collinari molti agricoltori si stanno indirizzando verso la soia, più resistente alla siccità e che non richiede concimazioni azotate.
La vera novità sarebbe estendere la possibilità di coltivare i terreni lasciati a riposo (e considerati aree ecologiche Efa), e di derogare alla diversificazione delle colture anche nel 2023. Ma l’entrata in vigore della nuova Pac complica le cose.
Articolo pubblicato sulla rubrica Primo piano di Terra e Vita
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Al Nord si punta sul mais
«Vista la crisi di prodotti che si prospetta, è quasi d’obbligo aderire, per motivi etici e morali prima ancora che economici – ammette Marco Samarani, agricoltore di Trigolo (Cr) –. Abbiamo circa 120 ettari di azienda, quelli a riposo erano una quindicina. Li abbiamo seminati tutti a mais, vista la zona in cui siamo».
«Con i tempi che corrono, tutto è utile. Per politica aziendale, sfruttiamo tutte le occasioni, che siano finanziamenti o altro, per cui sì, abbiamo aderito alla deroga, ma abbiamo potuto seminare soltanto una piccola parte del terreno a riposo – circa 10 ettari – perché la maggior parte della superficie l’abbiamo dedicata ai medicai». Così Antonio Ricci, imprensitore agricolo di Faenza (Ra).
«Visto il periodo in cui è uscito il decreto avremmo potuto destinare questi ettari a mais o soia – spiega – abbiamo scelto il mais perché in azienda abbiamo un biodigestore e pertanto il mais non è mai sufficiente. Soprattutto quest’anno, visto che nel 2021 abbiamo avuto raccolti scarsi a causa della siccità e che anche la campagna 2022 si preannuncia abbastanza secca».
Ma c’è anche chi, come Marco Crotti (Piacenza), non ha potuto adesire perché non ha terreni incolti. «Nelle aree a riposo facciamo in gran parte prato o medicaio, mentre negli scampoli di terreno a fianco degli appezzamenti, o negli angoli difficili da coltivare, già da anni seminiamo Facelia (Phacelia tanacetifolia, ndr), perché preferisco spendere qualcosa per seminare un’area improduttiva che lasciare il terreno incolto. Avevamo fatto questa scelta già diversi anni fa, per motivi sia di gusto personale sia ambientali». La Facelia, in effetti, è una pianta mellifera, giudicata tra le più valide nella preservazione dell’ecosistema e nella salvaguardia delle api.
Al Sud girasole protagonista
Girasole e mais. Sono queste le colture alle quali gli agricoltori foggiani hanno dedicato le modeste superfici che sono riusciti a coltivare nei tempi stretti concessi dalle deroghe Ue ai regolamenti comunitari sui pagamenti diretti della Pac. Più girasole che mais, come evidenzia Donato Luciani, presidente della Cooperativa agricola fra coltivatori di Apricena (Fg).
«Quindici anni fa i miei soci coltivavano a girasole 400-450 ha, nel 2021 solo 30, nel 2022 circa 300. Duecento ha li avevano già seminati, altri 100 a seguito delle deroghe, non è stato possibile fare di più. Il girasole è un ottimo sostituto del pomodoro da industria, che parecchi agricoltori hanno deciso quest’anno di non coltivare: rispetto al mais il girasole ha costi di produzione più bassi e, grazie ai maggiori ricavi, è più remunerativo. Richiede meno acqua, se non piove gli bastano appena tre interventi irrigui: all’emergenza, alla levata e in prefioritura; invece il mais ha bisogno di acqua per l’intero ciclo colturale. Il girasole, con una resa media di 30 q/ha e un prezzo del seme prodotto di circa 90 €/q, trainato dalla mancanza di olio di girasole a seguito del conflitto russo-ucraino, garantisce una produzione lorda vendibile di circa 2.700 €/ha: detratti circa 500 €/ha di costi, resta un reddito netto di oltre 2.000 €/ha. È un margine notevole, che non assicurano né il pomodoro da industria né il mais».
Rino Mercuri, invece, ha deciso di approfittare delle deroghe per coltivare 5 ha a mais a Foggia. «Appena si è avuta voce ufficiosa di tali deroghe ho cominciato a organizzarmi per coltivare mais da granella: l’ho seminato a fine maggio, lo raccoglierò a settembre, forse ottobre. C’è richiesta di granella di mais, scarseggia sul mercato, perciò allevatori e mangimifici ne hanno bisogno. È vero che è una coltura prettamente irrigua, richiede più acqua del girasole, ma il Consorzio per la bonifica della Capitanata garantisce l’acqua necessaria. È tuttavia vero che nel Foggiano le superfici coltivate, dei terreni prima a riposo, sono modeste e dedicate per lo più a girasole».
Il provvedimento è stato fatto «molto tardi» secondo Leonardo Moscaritolo, agricoltore di Melfi (Pz), dove coltiva a rotazione grano duro, avena, favino e orzo distico su un centinaio di ettari. Moscaritolo è anche rappresentante dei produttori cerealicoli di Cia.
«A fine febbraio/inizi marzo, soprattutto al Centro-Sud, le semine erano già state tutte programmate, quindi terreni a risposo ce n’erano pochi o niente – è la sua critica –. Se qualche terreno marginale è rimasto, è improduttivo oppure difficile da coltivare. È una misura che non credo possa supplire alla mancanza di cereali in generale – afferma –. Inoltre, bisogna capire che quei terreni non erano seminati perché gli agricoltori avevano alti costi di lavorazione e oggi con il prezzo del gasolio così elevato il produttore non si va ad impegnare senza una misura specifica sul gasolio agricolo. Servirebbe un intervento anche sul prezzo del gasolio agricolo – ribadisce –. Noi non abbiamo beneficiato del provvedimento fatto per quello industriale».
Sovranità alimentare, una chimera
«Quarant’anni fa c’era il problema di un’eccedenza produttiva – ragiona il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti – oggi, complici politiche poco lungimiranti, ci troviamo con una situazione opposta. Teoricamente, per rispondere al problema attuale di autosufficienza alimentare, avremmo bisogno di oltre tre milioni di ettari in più da coltivare solo in Italia. Si pensi che il nostro sistema vino ha 600mila ettari vitati e quello dell’olio si estende su un milione. C’è una questione importante da affrontare – continua Giansanti – che è quella di avere una food policy che ora non esiste. Oggi molte filiere sono a rischio: pensiamo alla zootecnia, che risente in modo pesante della situazione internazionale che si ripercuote anche sul consumatore finale, con i rincari sul carrello della spesa. Dobbiamo creare, attraverso politiche mirate, un modello in cui maggior produzione si coniughi con etica e sostenibilità, preservando le risorse naturali».
Un anno non basta
Molto critico il presidente di Copagri Franco Verrascina. «Provvedimento arrivato in ritardo sulle semine primaverili, dovremmo recuperare con le semine autunnali. Mi chiedo se nel 2023 si potranno seminare quei terreni. Se no, sarebbe una beffa sotto tutti i punti di vista. Che senso ha recuperare dei terreni che sono incolti, lavorarli e poi non poterli seminare – chiede Verrascina –. Su questo punto serve chiarezza. Noi certamente dobbiamo cercare di produrre quanto più possibile, anche se non si potrà mai arrivare alla sovranità alimentare nel nostro Paese dobbiamo provare ad avvicinarci all’autonomia. Dobbiamo dare certezze agli agricoltori sul fronte dei prezzi – incalza Verrascina –. L’unica certezza che hanno oggi i produttori riguarda i costi, che sono molto elevati. A luglio quanto sarà il prezzo del grano? Se sarà 50 /t non ho problemi, ma se devo produrre e poi il prezzo scende a 25 €/t rischio il fallimento. Ormai per i terreni a riposo parliamo di semine autunnali, ma se i prezzi sono così oscillanti l’agricoltore non semina. In questa partita chi deve rischiare? Solo l’agricoltore? Bisogna fare sistema – conclude il presidente di Copagri – serve un progetto di filiera che includa tutti con contratti pluriennali, altrimenti l’agricoltore non semina più, e l’ha dimostrato, basta vedere sul versante mais com’è andata».
«Sicuramente la deroga è arrivata in ritardo – è la posizione di Coldiretti espressa per bocca di Alessandro Apolito – ma forse il più grande limite del provvedimento è che duri soltanto un anno. È stato impostato tutto sull’emergenza, ma in realtà la guerra in Ucraina, e prima la pandemia, ci hanno dimostrato che le catene di approvvigionamento non sono così solide. Basta pensare anche all’aumento dei costi dei trasporti: un cargo che prima costava mille dollari adesso ne costa 15mila. La questione che ci sia bisogno di più terreni per garantire la sovranità alimentare europea per fare colture strategiche è corretta – ammette Apolito – ma è un patto che certamente non può durare un anno. È sicuramente un provvedimento positivo ma bisogna estenderne la durata, puntare su sostegni ai contratti di filiera che garantiscono prezzi equi. Perché negli ultimi anni abbiamo abbandonato 800mila ettari che erano principalmente dedicati ai cereali? Perché non veniva garantito un giusto prezzo agli agricoltori».
Sbagliati tempi e modi
Sulla stessa linea Stefano Francia, presidente di Agia-Cia. «Abbiamo creato confusione tra gli agricoltori: noi riuscivamo a seminare solo mais, girasole, sorgo e poche altre colture, visto il momento in cui è stato deciso lo sblocco – è la sua osservazione –. Una parte degli agricoltori che ha scelto di non utilizzare la deroga l’ha fatto anche a causa del ritardo del ministero nel sistemare tutta la parte burocratica. Perché se devo rischiare di perdere i contributi anche delle annualità precedenti ci rifletto molto. E poi non tutte le aree Efa sono adatte a fare mais, girasole, sorgo o soia. Prima di tutto va fatta un’attenta riflessione se in quelle aree c’è disponibilità irrigua – spiega Francia – se non c’è fare mais diventa completamente improduttivo, cioè non si riesce nemmeno a portare a termine la coltura. E poi va valutato se ci sono le infrastrutture per le macchine agricole. Quindi queste scelte devono essere fatte in modo più ponderato, necessitano di una programmazione diversa, riflettendo bene su quali sono le necessità della nostra collina per ridiventare produttiva per quelle colture.
Il principio di questo provvedimento è troppo semplicistico – sottolinea Francia –. Le scelte devono essere più ponderate non si può in poche settimane o giorni decidere che si deve fare un tipo di coltivazione o un’altra. Deve essere studiata attentamente la morfologia del terreno, l’infrastruttura del territorio, le tipologie di aziende che abbiamo su quel territorio e se gli agricoltori svolgono un ruolo attivo o solo marginale. Spesso sull’agricoltura si decide come se qualsiasi azione fosse al di fuori delle logiche imprenditoriali».
Un bilancio a fine anno
Per avere un riscontro oggettivo sull’impatto di queste misure per l’agricoltura italiana ed europea bisognerà attendere la fine dell’anno. Entro il 15 dicembre, infatti, gli Stati membri dovranno comunicare alla Commissione europea il numero di aziende che si sono avvalse delle deroghe e il numero di ettari ai quali sono state applicate. Con questi dati sarà possibile misurare l’aumento effettivo della superficie dedicata a seminativi per la produzione di alimenti e mangimi che hanno generato queste decisioni, calcolare la produzione aggiuntiva e l’impatto che avranno avuto avuto sull’offerta e sulla domanda di prodotti agricoli.
Articolo pubblicato sulla rubrica Primo piano di Terra e Vita