Il diradamento delle mele in postfioritura è diventato un problema soprattutto dopo il ritiro dal mercato del carbaril nel 2008. Un problema che ha stimolato l’attività di molti Centri di ricerca e sperimentazione, impegnati a sviluppare sistemi alternativi per ridurre l’allegagione. Il problema è ancora più delicato per la produzione biologica visti i vincoli nell’uso della chimica di sintesi. In provincia di Bolzano il Centro di Sperimentazione Agraria e Forestale di Laimburg ha lavorato su questo tema con forte impegno nell’arco degli ultimi anni. I risultati di queste prove e le prospettive esistenti sono state illustrate ai frutticoltori in una recente giornata “porte aperte”. «Attualmente – spiega Markus Kelderer, coordinatore del progetto di ricerca – vi sono diversi metodi di diradamento in epoca di fioritura che sono autorizzati anche per il biologico: dal diradamento meccanico, almeno per le file strette, l’utilizzo di diradanti come polisolfuro, che stiamo sperimentando fin dagli anni ’90. Quello che ora noi stiamo sviluppando è un diradamento in un momento più tardivo, per correggere quello che si è fatto con la macchina o con il polisolfuro, con strumenti utilizzabili anche nel bio (non verranno quindi trattati in questo articolo i bioregolatori diradanti, ndr)».
Hedging e topping
Quando si effettua il diradamento gli errori sono infatti sempre dietro l’angolo: ad esempio quella di non individuare il momento giusto d’intervento. La potatura meccanica con cimatrice si può fare sui lati (hedging) o sulle cime (topping) utilizzando una cimatrice a lame oppure a dischi rotanti. «L’epoca giusta – spiega Kelderer – è a fine primavera allo stadio di 10-14 foglie della cacciata. Un taglio troppo anticipato (invernale) provocherebbe infatti il riscoppio della vegetazione, mentre un taglio tardivo (estivo) indebolirebbe la pianta, non influendo però sulla messa a fiore (si hanno spesso ricacci di legno immaturo)». Con il taglio a fine primavera la pianta riesce invece a maturare gemme a fiore anche in prossimità del taglio, ma ci sono dei limiti: manca un’adeguata sperimentazione locale poliennale (a Laimburg si sta lavorando per individuare le giuste condizioni operative, come la corretta impostazione dei giri motore – si veda Fig. 1); richiede impianti con forma di allevamento e sesti adatti.
Le bentoniti colorate
«Da qui – commenta il ricercatore – nasce la necessità di individuare possibili interventi alternativi o correttivi: reti antigrandine, reti ombreggianti, prodotti che riducono l’attività fotosintetica e antitraspiranti. La sperimentazione è ancora all’inizio, forse non abbiamo ancora individuato la contromisura perfetta. Ma con alcuni olii abbiamo già dei buoni risultati». Una delle soluzioni per indurre la cascola è infatti quella di ridurre l’attività fotosintetica. E ciò si può fare con l’applicazione di reti ombreggianti nel periodo di fioritura. «Ma si tratta di una soluzione probabilmente troppo onerosa in termini di manodopera, visto che la rete va messa e tolta in pochi giorni. Per questo stiamo testando l’impiego di sostanze, come ad esempio le bentoniti colorate, in grado di riflettere la luce, ma vi sono in sperimentazione anche molti olii: bisogna solo evitare possibili problemi di fitotossicità».
Gli antitraspiranti
Gli oli minerali e quelli di soia si comportano infatti come antitraspiranti: se si usano per qualche giorno la pianta entra in uno stress fotosintetico, incrementando così la cascola. Le prove effettuate su diverse varietà ed in diverse zone, dalla Val Venosta alla Val d’Adige hanno evidenziato risultati differenti fra le diverse varietà. «Stark e Red Delicious hanno diradato di più, ma un effetto lo abbiamo riscontrato su tutte le varietà: un anno è ancora poco, ma le indicazioni ci sono ed andremo avanti».
Anche gli “effetti collaterali” sono stati diversi, in base alle varietà e ai prodotti utilizzati. «Si è riscontrata una certa fitotossicità sulle foglie – riconosce Kelderer –, dipende dalla sostanza che si usa, possiamo avere anche problemi di rugginosità , ma siamo ancora in una fase sperimentale che deve tenere conto di moltissime cose: non c’è mai una soluzione per tutto».
Carpocapsa in trappola
Un’ulteriore soluzione innovativa e alternativa viene poi dall’utilizzo di reti di copertura monofilare (si veda riquadro), sviluppate in Francia per il controllo della carpocapsa (note come reti Alt’-Carpo) e testate a Laimburg in chiave diradamento. «Due anni d’esperienza sulla tipologia monorang, che prevede la copertura di ogni singola fila, applicata prima della fioritura oppure in piena fioritura, ha consentito di rilevare significativi effetti sul diradamento». Rispetto alle normali reti di ombreggiamento, il costo in manodopera necessario per l’applicazione e gestione di questo sistema viene recuperato, almeno in parte, dalla possibile riduzione del numero dei trattamenti insetticidi. Per chi decide di affidarsi a questa tecnica ecosostenibile per proteggere il frutteto dalla grandine e per combattere la carpocapsa, questa potrebbe quindi dare una mano anche alla riduzione della fecondazione dei fiori. «Occorre però individuare il momento giusto – conclude Kelderer –. L’agricoltura non è matematica, servono ulteriori esperienze per verificare quanto una chiusura anticipata delle reti possa influenzare l’impollinazione».