Davanti a un foglio bianco – un tempo di carta, oggi elettronico – l’agricoltore fa i conti con se stesso e con il suo lavoro. È il momento di decidere le semine autunnali per la campagna 2024-2025. Essendo egli un imprenditore, è obbligato a ragionare in termini di logica aziendale. Costi di produzione, previsioni sull’andamento dei prezzi, valutazione delle serie storiche di rese e guadagni per la sua azienda. Grazie all’agricoltura di precisione, ormai tutti i dati sono a portata di dito. Ci mette la testa, insomma, com’è giusto che sia. Ma oltre a quella, c’è la pancia. Perché la semina, al pari di un acquisto non programmato, è un fatto anche emozionale.
E allora puoi ragionare finché vuoi sui dati storici, il contributo accoppiato, le previsioni climatiche a lungo termine. Ma se una coltura ti ha fatto dannare per tutta la stagione, l’hai dovuta riseminare, poi s’è pure ammalata, ha reso poco e vale ancora meno, per rosee che siano le previsioni al suo riguardo, non la vorrai più vedere per un anno almeno. Salvo poi restare scottati dall’alternativa scelta e tornare sui propri passi, l’autunno prossimo.
Il rebus Pianura Padana
Per questi motivi azzardare previsioni sulle reali intenzioni di semina non è affatto semplice. Soprattutto in un anno come questo, in cui un meteo ancora una volta schizofrenico ha scombinato tutti i piani. Il clima è stato una variabile impazzita e lo è tutt’ora. Ha, per esempio, condizionato la semina della colza, che andava fatta entro fine settembre, ma al nord sotto la pioggia di colza se n’è seminata poca o niente. Potrebbe condizionare anche la campagna del grano. C’è ancora tempo, certamente, ma i campi al nord sono zuppi e se dovesse piovere ancora a inizio novembre, di tempo ne resterebbe poco. A influenzare le scelte ci sono poi poi le rese 2024, in molti casi pessime, sempre a causa del clima. Chi ha ancora voglia di fare grano, con queste produzioni? E non dimentichiamo i prezzi.
Il grano non brilla né pare volersi riprendere, altrettanto il mais. Che, perlomeno, ha dalla sua rese non pessime, considerando il resto, per cui non suscita reazioni allergiche al solo pronunciarne il nome. La colza ha buon prezzo e bella presenza in campo. Ma si fatica a tirarla via, dal campo, perché piove continuamente. Tuttavia, fors’anche per mancanza di alternative, dovrebbe mantenersi e forse crescere. Soprattutto a Nordest, laddove ci sono cultura agronomica e terreni vocati. È quotato bene anche il riso: le produzioni sono basse, ma il prezzo le compensa e pertanto si può pensare a un incremento per il 2025. Non più del 5-10%, vale a dire meno di 10mila ettari.
Infine, a sparigliare ulteriormente le carte c’è anche la Pac, che per il 2025 lascia le mani più libere ai produttori. Stando agli umori che si raccolgono in campagna, pare che molti siano intenzionati a tornare al passato, adottando strategie ormai collaudate come rotazione e diversificazione. Soprattutto la prima, magari con una coltura di copertura che permetta di fare mais a primavera senza violare alcun divieto comunitario.
Sarà l’anno del trinciato?
A proposito di mais, tutti gli addetti ai lavori che abbiamo interpellato lo danno stabile o persino in leggera crescita. Se non altro, perché, a livello di superfici, ha toccato ormai il fondo. Da tenere sotto osservazione i movimenti interni: è opinione comune che salirà il peso del mais da trinciato a scapito della granella. La ragione è semplice: stalle e digestori hanno le scorte al minimo e le devono rifornire. Per lo stesso motivo, è plausibile che anche una buona quota di cereali vernini sarà dedicata all’insilaggio. Grano, orzo, triticale e miscugli vari, per avere trincee da aprire a inizio estate e pensare a un secondo raccolto di mais o sorgo. Ce lo conferma Giovanni Bruschi, che coltiva per le agroenergie in provincia di Cremona.
«Confermeremo mais e pomodoro, a meno che gli impianti che riforniamo non si fermino per convertirsi al biometano. In quel caso, faremo meno mais e più insilati vernini». In aggiunta, cover crop, per fare rotazione: «La sola cosa che, da quanto vediamo, aiuta a pulire i campi e ridurre i problemi sanitari».
Senza Pac ma liberi di scegliere
Per riassumere, dunque, grano da trebbiare in probabile calo, a vantaggio del foraggero. Mais stabile o in leggera crescita, colza a forte rischio, girasole con un grosso punto interrogativo dopo una stagione difficile. Più riso e, forse, più soia, soprattutto a Nordest. Cristian Franchi, agricoltore con 160 ettari in provincia di Rovigo, abbandonerà colza e bietola, concentrandosi su grano, mais e soprattutto soia.
«Per prima cosa, come scelta aziendale abbiamo rinunciato ai contributi: prendiamo soltanto quello minimo. Troppi vincoli da rispettare, non si può lavorare così. Quest’anno avevamo 65 ettari di soia, 45 di grano, 30 di mais, 11 di bietole e 10 di colza. Bietole e colza non le voglio più nemmeno sentir nominare: le prime hanno preso il lisso e in più erano basse di gradazione, per cui zero reddito. La colza ha patito malattie, insetti e tutto quanto poteva patire. L’anno prossimo, soltanto soia, mais e grano». La pancia, per l’appunto.
Granaio d’Italia addio?
In Puglia e Basilicata domina l’incertezza sulla gestione delle prossime semine. I problemi sono comuni, ma ogni azienda si regola come può e crede.
Marcello Martino, agronomo responsabile della conduzione di numerose aziende cerealicole foggiane e produttore di grano duro tra Manfredonia e Foggia, non sa se seminerà tutto il grano duro che ha programmato negli ultimi anni. «La mancanza di vere piogge e la previsione di un autunno siccitoso rendono più difficile la preparazione dei terreni, anche per il dubbio che le sementi possano germinare in asciutto.
Inoltre, il prezzo molto modesto sconsiglierebbe la coltivazione del grano duro. In questo periodo, come al solito, c’è una tendenza al rialzo del mercato per incoraggiare le semine, infatti il “fino” nell’ultima mercuriale di Foggia è stato quotato 315-320 €/t, ma potrebbe essere solo una temporanea illusione, alimentata ad arte anche per l’imminente vendita del seme. Non sembra, però, che il prezzo possa aumentare a breve in modo significativo».
Per Martino la situazione è molto critica. «In passato i contatti con le aziende sementiere erano già in stato avanzato a fine settembre, quest’anno prevale l’attendismo. Mancano vere e proprie alternative. In quest’annata anche gli altri cereali e le leguminose hanno registrato rese basse e prezzi non remunerativi. È difficile pure lasciare i terreni vuoti, perché bisognerebbe sostenere dei costi per tenerli puliti dalle infestanti».
Anche Gerardo Campanella, presidente della cooperativa rurale sub-appennino dauno (Corsud) di Deliceto (Fg), non nasconde le perplessità. «Grano duro, orzo o avena, non cambia molto: le rese sono così vincolate ai cambiamenti climatici e i prezzi al produttore così bassi che non sappiamo qual è il meno peggio. Coltivare grano duro è un dramma. Anche i contratti di filiera non garantiscono prospettive, servono solo alle industrie per accaparrarsi il prodotto di miglior qualità, ma il prezzo è agganciato a quello di mercato, con solo qualche euro in più, nulla di realmente remunerativo.
Le alternative? L’orzo ha prezzi modesti, 16-18 €/q. L’avena va sui 30 €/q, ma dà rese molto variabili. Le leguminose, come i cereali, soffrono la siccità e hanno rese basse. Le mellifere comportano l’obbligo di tenerle in campo per troppi mesi e diventano infestanti, inoltre, garantiscono un aiuto comunitario modesto».
Per Angelo Miano, che gestisce con i figli un’azienda zootecnico-foraggera tra Foggia e Lucera, una reale alternativa al grano duro può diventare la destinazione di terreno a erbai polifiti autunno-invernali per foraggio. «L’agricoltore proprietario del terreno lo cede in uso a terzi, in genere allevatori come noi, per seminare leguminose da granella o essenze da erbaio in cambio di 100-150 €/ha. È un “affitto verbale” temporaneo. L’agricoltore, oltre al sostegno di base di 160 €/ha, riscuote l’“affitto” e altri 40-50 €/ha come sostegno alle superfici a seminativo in avvicendamento di colture leguminose e foraggere, secondo l’ecoschema 4. Invece chi coltiva si garantisce il foraggio per le vacche o bufale che alleva. Con questo “affitto” coltiveremo 300-350 ha per le nostre bufale».
I 400 soci della società cooperativa agricola “Le Matine” di Matera si stanno orientando in gran parte per rinunciare a seminare grano duro a favore di orzo, soprattutto, e avena. «Veniamo da un’annata segnata da gelate e siccità – afferma il presidente Nunzio Di Mauro – alcuni agricoltori non hanno neanche portato la mietitrebbiatrice nei campi, i più fortunati hanno raccolto appena 10-15 q/ha. In più il prezzo rimane ostinatamente basso. Coltivando orzo o avena cerchiamo quanto meno di ridurre i costi».
L'orzo si fa strada in Capitanata
Ridurre la superficie coltivata a grano duro, aumentare quella riservata all’orzo. È questa l’intenzione di semina di Mario Cardone, che a Cerignola (Fg) ogni anno destina un terzo della superficie aziendale a grano duro, un terzo a orzo polistico o da seme e un terzo a leguminose da granella o colture miglioratrici.
«L’orzo è in primo luogo un cereale più rustico del grano duro, quindi meno soggetto agli effetti del cambiamento climatico: infatti quest’anno ha resistito meglio alla siccità. La maggiore rusticità gli consente di essere meno esigente in unità fertilizzanti di azoto: mentre sul grano duro ne somministro 100-120, con due o tre interventi in copertura in funzione dell’andamento climatico, sull’orzo ne bastano 50-60 date in un solo intervento in copertura. Riducendo gli apporti di azoto diminuisco i costi di produzione».
Inoltre l’orzo accestisce prima e meglio rispetto al grano duro, è più competitivo sia delle infestanti a foglia stretta, come l’avena selvatica, il loietto, ecc., sia di quelle a foglia larga. «Tale caratteristica, a maggior ragione se coniugata con una falsa semina, rende inutile effettuare il diserbo oppure lo fa diventare necessario solo in alcune aree o con dosi ridotte di diserbante. E anche questo comporta una riduzione dei costi».
È vero, conclude Cardone, che l’orzo quota solo 18 €/q, ma, a conti fatti, adesso conviene di più. «Certo, se producessi più di 35 q/ha di grano duro e tornasse a quotare 50 €/q, le prospettive cambierebbero. Ma questa è un’ipotesi che, almeno adesso, appartiene al passato».
Sicilia a secco, in tutti i sensi
Semine a rischio quest’anno in Sicilia. Due i fattori che le mettono fortemente in discussione. Uno tecnico, l’altro economico. Il primo è l’impossibilità di lavorare i terreni troppo asciutti: in molte delle zone tradizionalmente destinate alla cerealicoltura non piove ormai da mesi. L’altro fattore di rischio per le semine autunnali è la mancanza di liquidità tra gli agricoltori. Dopo due annate di magri raccolti, sarà pure difficile andare a credito dai commercianti di grano che finora, in cambio di una promessa di vendita, hanno sempre finanziato l’acquisto di sementi, concimi, agrofarmaci e gasolio.
I grossisti e intermediari di granaglie - il “bancomat” di tanti piccoli produttori cerealicoli - infatti, dopo l’ultima annata disastrosa in cui il crollo delle rese e il mantenimento al ribasso del prezzo del grano duro ha praticamente azzerato i guadagni, sono già fortemente esposti con gli istituti di credito e per loro è già una buona notizia non avere ricevuto ordine di rientro dal fido.
Più fortunati i soci della coop Valdittaino. «La coop, come sempre, anticiperà i fattori produttivi ai soci anche se l’annata 2023/24 è stata un disastro dal punto di vista delle rese e quindi dei conferimenti. Se lo può permettere grazie alla lunga filiera che è riuscita a chiudere», osserva Biagio Pecorino, cerealicoltore, presidente della Coop Valle del Dittaino e docente di economia agraria all’Università di Catania.
Pure dal fronte dei fornitori di mezzi per l’agricoltura, le notizie non sono buone: non sembrano disposti a fare credito a nessuno. «Servirebbe una immediata iniezione di liquidità e la sospensione di tutte le scadenze previdenziali e fiscali per dare fiato al comparto – spiega Pecorino – invece, al momento – sono previste solo mancette». Il riferimento è ai 25 milioni di euro (15 stanziati dal ministero e 10 dalla Regione Siciliana) che verranno utilizzati per gli interventi previsti dal decreto legislativo 102/2004 (la legge sui danni ormai superata da Agricat).
La conferma di semine al ribasso arriva anche dai sementieri siciliani: «Oggi le prenotazioni di sementi certificate arrivano solo al 60% della media degli anni precedenti», afferma Calogero Lo Porto, titolare della Lo Porto Sementi che ad Alimena, sulle Madonie in provincia di Palermo. «Ma è anche vero che la siccità ha inciso profondamente sulla disponibilità del seme certificato prodotto in Sicilia che ha registrato in media un calo del 30%».
Se le condizioni climatiche ed economiche inducono gli agricoltori a seminare lo stretto necessario, rinunciando ai ringrani, c’è chi ricorda che rientreranno “in circolo” tutti i seminativi per i quali è scaduto l’impegno del set-aside settennale. Cosa decideranno i proprietari non è chiaro, anche perché potrebbe profilarsi una proroga.
Di sicuro c’è che certe anomalie verranno superate. Come quella consuetudine, basata su contratti non scritti, in base alla quale i grandi proprietari terrieri riservano per sé i premi accoppiati della Pac, lasciando ai “contadini” il rischio d’impresa della coltivazione dei campi.
«Non ci saranno terreni abbandonati», afferma fiducioso l’agronomo Biagio Randazzo, breeder e selezionatore di grano duro (il Tancredi è una sua creatura). «In alcuni areali molti opteranno per la semina di orzo meno esigente e più produttivo del grano duro, oppure si impegneranno per l’ecoschema 5, la misura della Pac che prevede premi per chi semina essenze mellifere. Ma con l’aumento della superficie impegnata – osserva Randazzo – quel plafond di 43 milioni di euro destinato all’Italia non potrà assicurare più premi da 500 euro come è successo per il primo anno di impegno».
Resta un’altra alternativa: affittare i terreni a chi vuole produrre foraggere. Pare saranno in tanti. In cuor loro, la speranza di molti proprietari terrieri è che le multinazionali dell’energia fotovoltaica si facciano avanti con qualche allettante proposta. «Con buona pace di chi, tra i pastifici locali, ha scommesso su una pasta tutta siciliana», commenta Giuseppe Russo, presidente del Distretto produttivo cerealicolo, struttura che sta portando avanti il progetto della “Pasta Siciliana Dop”.
In Sicilia rischio terreni incolti a causa della siccità
Mario Dilena conduce un’azienda cerealicolo-zootecnica (oltre 120 ettari + 40 vacche nutrici e una ventina di vitelli) nella cosiddetta zona del Vallone: centro Sicilia a cavallo tra le province di Caltanissetta e Agrigento. Qualcuno l’ha paragonata alla “Terra di Mezzo” dove è ambientato il Signore degli Anelli di Tolkien. Dal punto vista agricolo, nel 2024, questa è stata la terra del nulla: la siccità ha totalmente azzerato le produzioni sia di cereali che di foraggere.
«Seminerò come ogni anno il grano duro, aumentando forse la superficie a foraggere. Lo farò perché, per fortuna, posso permettermelo. E non certo per quello che ho ricavato quest’anno: ho avuto una resa di 10 quintali a ettaro e mi sono reputato perfino fortunato rispetto a colleghi che hanno sostenuto le spese per la messa a coltura e non hanno ricavato nulla» afferma l’imprenditore agricolo nisseno.
Qui, nel Vallone così come in tutte le aree interne della Sicilia, la cerealicoltura non ha molte alternative: al posto del grano duro si può fare orzo, ma anche questo cereale che pur manifesta in genere una maggiore resistenza alla siccità ed è meno esigente in fatto di concimazioni, non si è salvato.
Dilena guarda con preoccupazione alla comunità di cui fa parte: «Saranno in tanti a non poter effettuare lavorazioni, concimazioni, diserbi e semine perché non hanno chi fa loro credito per l’acquisto del necessario a cominciare dal gasolio per le macchine agricole». Dopo due anni di prezzi ai minimi e rese ridottissime, perfino in queste aree dove sulla resilienza si è basata un’economia agricola portata avanti da eroici piccoli imprenditori rischia di fallire. Dando spazio all’abbandono e all’uso spesso dissennato delle energie alternative.
Frumento duro: servono rese ottimali
Il costo medio di coltivazione del frumento duro (Emilia-Romagna) per la campagna 2023/24 è di circa 1.550 €/ha, di cui 985 €/ha per materiali (64%), 375 €/ha (24%) per manodopera e oneri fissi della meccanizzazione e il resto (12%) per i noleggi (trebbiatura e trasporto). Tra le materie prime, i fertilizzanti sono l’uscita più onerosa, con 370 €/ha, seguiti dalla semente, 245 €/ha e, quindi, da diserbanti e agrofarmaci con circa 135 €/ha ciascuno.
Senza considerare costi per l’uso del terreno, con una resa ottimale compresa fra 5 e 6 t/ha, il costo unitario si colloca fra 270 a 320 €/t, ma se la resa scende a 4 t/ha, la spesa unitaria sale fin quasi a 400 €. Il prezzo medio registrato nell’ultimo anno è stato di 320 €/t, un valore che consente di pareggiare i costi solo restando nel range ordinario. A quota 300 €/t si possono ancora pareggiare i costi con circa 4 t/ha di resa, ma considerando l’aiuto della Pac, nella misura di 250 €/ha, mentre al di sotto (in resa o prezzo) la perdita economica è inevitabile.
Frumento tenero sul filo del rasoio
Il costo medio di coltivazione del frumento tenero (area Pianura Padana) nella campagna 2023/24 risulta di poco inferiore a 1.500 €/ha, di cui 325 €/ha di fertilizzanti, 260 €/ha di agrofarmaci, 215 €/ha per la semente e altrettanti di noleggi (trebbiatura e trasporto). Il resto è da attribuire a manodopera e oneri di meccanizzazione. Nel calcolo non è computato il costo d’uso del terreno.
In terreni di pianura e con adeguata rotazione, la resa media dovrebbe attestarsi fra 5 e 7 t/ha, corrispondenti ad un costo unitario fra 230 e 310 €/t. Considerando una contribuzione Pac media di 250 €/ha, il costo scende, invece, fra 175 e 235 €/t.
Il dato medio di prezzo dell’ultimo anno si assesta attorno a 230 €/t, ma con punte anche inferiori in prossimità del raccolto. Nonostante una lievissima discesa dei costi rispetto alla campagna precedente, se le quotazioni si confermeranno, i margini di redditività sono destinati a essere risicati e comunque vincolati a rese produttive medio-buone. In terreni meno produttivi, una minima marginalità diviene possibile solo per imprese diretto-coltivatrici.
Mais, difficile far quadrare i conti
Il mais è tra i cereali più dispendiosi, specialmente se gestito con irrigazione. Con riferimento alla Pianura Padana, il costo medio di coltivazione (escluso il prezzo d’uso del terreno) nella campagna 2023/24 può essere calcolato in circa 3.000 €/ha. La spesa per i materiali, pari a poco meno di 1.200 €/ha incide attorno al 40%: le maggiori voci sono i fertilizzanti, con 650 €/ha, seguiti dalla semente con 230 €/ha. Tra le spese di coltivazione, spicca l’irrigazione, con una spesa attorno a 700 €/ha, seguita dalla trebbiatura e trasporto con 375 €/ha. Rilevanti anche gli oneri per la lavorazione del terreno, 270 €/ha e per l’essicazione, quasi 200 €/ha.
La media dei prezzi dell’ultimo anno è di circa 215 €/t: con questo prezzo serve una resa di 14 t/ha per compensare i costi, che scende a 13 t/ha computando un valore medio Pac di 250 €/ha.
Considerando che la resa media dell’area Padana si colloca attorno a 10-12 t/ha, a questi livelli di prezzo è possibile una minima marginalità solo in aziende con elevate performance di resa.
Colza, margini interessanti
Nell’ambito delle rotazioni aziendali, il colza rappresenta una valida soluzione per intervallare la coltivazione di cereali, grazie ai ridotti input richiesti. Il costo di coltivazione, infatti, è valutabile in poco più di 1.100 €/ha (dati 2023/24, Pianura Padana), escludendo la remunerazione del terreno. Circa 380 €/ha sono richiesti per le materie prime, tra cui primeggia la semente, 150 €/ha, seguita dai fertilizzanti, con 135 €/ha. Le operazioni colturali, invece, richiedono un esborso di circa 730 €/ha, di cui ben 350 €/ha complessivi per la preparazione del terreno, che deve essere molto accurata. Le restanti operazioni (semina, difesa, concimazione e raccolta) richiedono fra 60 e 110 €/ha ciascuna.
La resa ottimale del colza si aggira attorno a 3,5 t/ha, che determina un costo unitario attorno a 315 €/t. Scendendo a 3 t/ha, il costo sale a 370 €/t, mentre con 2,5 t si arriva a oltre 440 €/t. Le quotazioni del trimestre giugno-agosto hanno oscillato fra 400 e 470 €/t, valori che evidenziano una discreta marginalità in caso di rese buone o medio-buone, mentre con rese minori il ritorno economico diviene più incerto.
Soia, in positivo anche senza aiuti Pac
Coltura di grande rilievo in ambito rotazionale, la soia presenta un costo complessivo di coltivazione di circa 1.800 €/ha (remunerazione del terreno esclusa), considerando una gestione di tipo irriguo. La spesa per i materiali è di 750 €/ha: tra questi, spiccano i fertilizzanti, con 260 €/ha e la semente, con 210 €/ha. Tra le operazioni colturali, invece, per l’irrigazione sono stimabili circa 380 €/ha, per la raccolta e il trasporto poco meno di 300 €/ha e per la preparazione del terreno 180 €/ha.
Come tutti i legumi, la resa della soia può essere molto variabile: una resa ottimale in irriguo dovrebbe essere di almeno 4 ton/ha, che genera un costo unitario attorno a 450 €/t, mentre salendo a 4,5 t/ha il costo diminuisce a 400 €/t. In annate problematiche, le rese possono però scendere anche a 3-3,5 t/ha e il costo, di conseguenza, sale finanche a 600 €/t.
Il dato medio di prezzo per il 2024 è pari a 467 €/t, un valore che permette una certa marginalità in condizioni di resa media o buona, mentre crea forti difficoltà con rese più contenute, dove la quadratura dei conti è possibile, entro certi limiti, solo computando anche gli aiuti Pac.