Trovare il giusto equilibrio nella razione alimentare di un allevamento bovino non è come fare un terno al lotto, ma quasi. Si devono considerare tutti gli aspetti: massimizzare la resa, mantenere gli animali in buona salute e, non da ultimo, risparmiare sui costi di produzione. Soprattutto con i prezzi del latte correnti.
Per tutti questi motivi, gli allevatori stanno sempre più valorizzando i foraggi, considerati non più un semplice riempitivo della razione alimentare ma un alimento fondamentale sotto molti punti di vista. Ecco qualche esperienza diretta.
SULLE COLLINE DEL PARMIGIANO
Giuseppe Corsini lavora, con il figlio e il fratello, sulle colline di Parma, a Varsi. Qui ha 110 vacche in lattazione, più manze e rimonta. Molte, di razza Bruna, con lineage certificato. Per un allevatore di collina il problema dei costi è prioritario, dal momento che le vacche producono meno latte rispetto a quelle di pianura e le spese sono molto più alte. «Per esempio, per rinnovare un prato dobbiamo prima dissodarlo, cosa che richiede giorni di lavoro a portar via sassi. Per questo motivo facciamo fatica a seguire un turnover appropriato. I prati andrebbero rifatti ogni tre anni, ma con tutto il lavoro che comportano, non sempre ce la facciamo».
Corsini produce in azienda tutto il foraggio che può e acquista il resto sul mercato. «Nelle annate favorevoli siamo quasi autosufficienti. Comunque dobbiamo sempre comperare qualcosa e talvolta, come nell’ultima stagione, è un salasso, perché la medica costa dai 18 ai 20 euro al quintale. Anche la paglia, per fare un esempio, è arrivata a 11 euro».
Fieno misto ed erba medica – autoprodotto il primo, acquistata la seconda – formano il 65% della razione. «Diamo circa 30 kg di alimenti: il 40% è erba medica, il resto fieno polifita e concentrati a base di farine di soia, mais e orzo».
C’è poi una seconda linea alimentare, che prevede mangimi fioccati (fave, soia e mais) in greppia e un pellettato specifico per gli animali in asciutta, arricchito con vitamine e aminoacidi. «Dell’uno e dell’altro – ci spiega l’allevatore – se ne somministrano un paio di chili al giorno».
La sensibilità al costo, per i Corsini, è evidente. Ma non è il solo fattore che considerano. «Dare fieno non è soltanto un mezzo per risparmiare. I bovini sono ruminanti e tali devono restare. Somministrando troppo mangime li trasformi in monogastrici; è un errore da non fare. Bisogna rispettare l’alimentazione naturale, anche se fa produrre qualche quintale di latte in meno».
DALL’EMILIA ALLE PREALPI
Giuseppe Barcella è un altro allevatore che deve prestare molta attenzione ai conti. Ha 80 capi in lattazione (150 considerando anche la rimonta) a Lentate sul Seveso (Mi). Li alimenta anche grazie a 40 ettari di terreno, 35 dei quali in affitto, che coltiva principalmente a foraggi: una quindicina di ettari di silomais, 20 di prato stabile polifita, il rimanente destinato a colture non zootecniche. Perché coltivare i foraggi e comperare le farine, quando sarebbe probabilmente più conveniente fare il contrario? La risposta è semplice: «Per produrre in casa gli sfarinati dovrei avere essiccatoi, silos e mulini. Invece siamo ben attrezzati per la fienagione; quindi la scelta è in un certo modo. Inoltre i terreni a prato sono marginali, in vallette o a ridosso dei boschi. Oppure dentro il parco delle Groane, dove non puoi cambiare coltivazione se non chiedi l’autorizzazione al Parco stesso».
Dunque, la scelta di usare il foraggio (28 kg su circa 40 di razione) è legata a questioni economiche, ma anche di organizzazione dell’azienda. Barcella è perfettamente attrezzato – come macchine e strutture – per la fienagione e pertanto sfrutta quel che ha, facendo del silomais il primo alimento, seguito da sfarinati e da circa 5 kg al giorno di fieno.
QUALITÀ BATTE PREZZO
Sempre in provincia di Milano, a Locate Triulzi, troviamo Agostino Fedeli, che con il fratello ha una stalla da 230 capi in lattazione. «Il mio concetto – ci spiega – è semplice: i prezzi si guardano, ma non si seguono. Abbiamo una certa suddivisione delle colture e non la modifichiamo se il costo della medica sale o scende, né se cresce il prezzo dei cereali che potremmo produrre su quei terreni. Potremmo, per esempio, piantare riso e comprare il mais da insilato. Ma preferiamo avere sotto stretto controllo la produzione degli alimenti. Le vacche sono animali delicati, soprattutto quelle molto produttive. Comprare del fieno essiccato male o magari del mais con micotossine è un errore che si paga caro».
I Fedeli puntano all’autosufficienza. Coltivano 40 ettari di mais da trinciato, 25 di prato e 10 ettari di erba medica. In più, il mais e i cereali per gli sfarinati. «I prodotti aziendali sono sempre migliori, al di là della questione economica. Guardiamo il prezzo soltanto per i prodotti che acquistiamo, ma sempre senza pregiudicare la qualità».
LA CONCORRENZA DEL BIOGAS
Anche Angelo Caligari coltiva sui suoi 150 ettari, a Seniga (Bs), quasi esclusivamente foraggi: mais da trinciato, loietto, poca medica e 24 ettari di misto grano-avena-veccia. La razione, per quanto riguarda i foraggi, è composta da 6 kg di misto, 2 e mezzo di loietto fasciato secco e 20 chili di trinciato di mais. Completano la dieta il pastone di mais, il nucleo e i sali minerali. Nel complesso, foraggi al 75%. «Facciamo così da anni. Cambiamo le proporzioni soltanto quando finiamo il pastone di mais, che produciamo in azienda».
La scelta di coltivare piuttosto che acquistare non dipende tanto dal prezzo quanto dalle abitudini. «Nella passata stagione, per esempio, poteva essere conveniente comprare sul mercato, perché il prezzo era molto basso. Il trinciato si trovava, in campo, a 1.500 euro l’ettaro». La ragione, ci spiega l’allevatore, è nella qualità del prodotto: «C’era un mais che arrivava a mezza cabina della trincia. Niente a che fare con quello del 2008, che passava il tetto della cabina. E infatti due anni fa valeva tra i 2.500 e i 3mila euro l’ettaro».
C’è tuttavia un altro fattore che influenza il prezzo: una nuova concorrenza. «Due anni fa era il periodo del boom del biogas e ci si trovò con scarsità di mais da trinciato. L’anno scorso, vista la domanda, sono aumentate le superfici e quindi non c’è stata la corsa dei prezzi. Ma il biogas è un concorrente molto forte: qui nel bresciano sta condizionando anche il valore degli affitti».
Stando ai calcoli fatti da Caligari (e che pubblichiamo in queste pagine) la produzione aziendale è conveniente, in annate normali. Per esempio, il trinciato di mais ha un costo di coltivazione tra 1,6 e 2,3 euro al quintale, a seconda della resa per ettaro (mediamente, tra i 500 e i 700 quintali per ettaro). Acquistato costa dai 2,5 euro al quintale in su.
INSILATO, REDDITIVITÀ IMBATTIBILE
Anche i fratelli Luigi e Giovanni Barbieri sono di Seniga. La loro stalla conta 400 vacche in lattazione ed è una delle principali della zona. Giovanni è l’alimentarista della famiglia ed è un sostenitore del silomais: «È di estrema importanza. Noi ne diamo dai 32 ai 35 kg al giorno al 32% di sostanza secca e 32% di amido. Anche la medica è fondamentale. Ne diamo quasi 4 kg alle più produttive, mentre per la seconda linea arriviamo anche a 5 kg, perché riduciamo il mangime».
Secondo Barbieri, il silomais dal punto di vista economico ha pochi rivali. «Credo che sia difficile battere il suo rapporto costi-benefici. E non è soltanto una mia opinione: un po’ tutte le aziende stanno andando su questa strada. Vorremmo arrivare a 40 kg a capo/giorno. Naturalmente si può fare soltanto con il prodotto giusto. Io cerco di raccoglierlo leggermente tenero: se asciuga molto in campo, perde in digeribilità e non si possono somministrare certe razioni».
Il calcolo sulla effettiva convenienza del foraggio nell’alimentazione del bovino da latte va fatto, secondo l’allevatore, considerando la percentuale di sostanza secca e quanto costerebbe sostituirla con farine o mangime. «Per esempio, se invece di 35 kg di silomais ne usassi 20, tenendo conto che il nostro prodotto ha il 35% di sostanza secca, avrei un aggravio di costi di circa 80 centesimi al giorno per capo. Finché la granella resta sotto i 18 euro al quintale, non conviene produrla per venderla, mentre è conveniente coltivare il silomais e le aziende farebbero meglio a utilizzarlo il più possibile».