Il vertical tillage nasce negli Stati Uniti come pratica di lavorazione alternativa al no-till e al minimum tillage. Un’indagine di qualche anno fa, condotta nel Corn Belt dalla rivista “No-Till Farmer” ha rivelato che il 35% dei terreni della regione erano soggetti a no-till, il 28% a pratiche conservative che comprendevano anche il vertical tillage, oltre al minimum tillage e allo strip-till, e solo il 38% della superficie era soggetta a metodi di lavorazione convenzionali, che però raramente comprendevano l’aratura. Il vertical tillage era applicato a circa il 6% della superficie a mais e a circa il 4% della superficie a soia. Viceversa, la semina su sodo era più diffusa sulla soia che sul mais.
L’obiettivo che gli ideatori di questa tecnica vogliono perseguire è quello di preparare un buon letto di semina sminuzzando il residuo colturale e miscelandolo nei primi due tre centimetri di suolo, anche con lo scopo di favorire e accelerare la sua degradazione. Questi sono anche i principi che persegue quell’intervento eseguito dopo la raccolta del cereale autunno-vernino e che comunemente definiamo come lavorazione delle stoppie. La lavorazione delle stoppie è un intervento tipicamente europeo, molto diffuso nel centro-nord, dove i cereali a paglia costituiscono la coltura più diffusa.
Inoltre, il vertical tillage si pone l’obiettivo di evitare qualsiasi forma di compattazione del suolo, proponendo l’uso di utensili che non formano suola di lavorazione. A tale riguardo si evidenzia come anche una leggera compattazione del terreno, tipicamente realizzata da erpici a dischi equipaggiati con dischi concavi, in prossimità della superficie (5-10 cm di profondità) interferisce con la germinazione della coltura e lo sviluppo dell’apparato radicale nelle fasi in cui la coltura è più sensibile e delicata. Da qui la necessità di riprogettare macchine e utensili a disco al fine di riuscire a eseguire la lavorazione richiesta senza operare alcuna alterazione nella densità del suolo nello strato sottostante a quello a cui lavora.
Velocità oltre i 15 km/h
Nel vertical tillage la lavorazione del terreno è sempre affidata ad attrezzature che operano a elevate velocità (anche superiori ai 15 km/h). Ciò è possibile poiché la profondità di lavoro è di solito molto ridotta, in genere inferiore ai 10 cm; l’utensile che impatta sul terreno è molto spesso costituito da un disco folle, e come tale riduce notevolmente l’attrito. Bisogna precisare che i dischi montati sulle attrezzature da vertical tillage sono dischi piatti montati leggermente inclinati rispetto alla direzione di avanzamento e, talvolta, anche rispetto alla verticale. L’intensità della lavorazione realizzata dal disco è amplificata dalla sua conformazione: in genere sono privilegiati i dischi caratterizzati da un margine mediamente ondulato. La posizione e la forma dei dischi favorisce l’aggressione del residuo, che diventa ottimale quando la profondità di lavoro è pari o poco superiore a un quarto del suo diametro. Pertanto, con dischi di circa trenta centimetri di diametro la profondità di lavoro è pari a circa 8 cm.
L’effetto del disco sul residuo colturale però dipende anche dal tipo di residuo e dalle condizioni di umidità del suolo. Infatti, in suoli umidi l’effetto taglio si riduce molto, perché viene a mancare, da parte del suolo, l’effetto contro-lama. Queste tipologie di lavorazione quindi è meglio eseguirle con terreno in tempera o tendente al secco. I residui più tenaci sono sicuramente quelli del mais, anche se le paglie di alcuni cereali vernini sono particolarmente resistenti. In questo caso però, le basse condizioni di umidità rendono il residuo colturale più “fragile”, mentre il terreno, opponendo maggiore resistenza alla penetrazione, favorisce l’azione di taglio. Il vertical tillage prevede inoltre che la profondità di lavoro sia molto ridotta (anche se ammette deroghe) e che il terreno non sia rivoltato. L’azione del disco (ad esempio tipo Flute) comporta sempre un certo sollevamento del terreno, soprattutto a elevate velocità. La profondità di lavoro, molto ridotta (talvolta limitata a soli 5 cm), evita a questa azione di rimescolamento del suolo gli effetti negativi sulla componente biologica del terreno, tipici di lavorazioni più profonde. Inoltre, il terreno “sollevato” tende a “imbrattare” il residuo colturale, favorendo una sua più rapida degradazione microbica. Una veloce degradazione del residuo della coltura è sempre un fatto positivo perché più rapida è la reintroduzione nel ciclo produttivo degli elementi nutritivi in esso contenuti e più efficace la produzione di sostanze umiche.
Rispetto alla semina su sodo, il suolo lavorato secondo questa tecnica subito dopo la raccolta, tende, nella primavera successiva, a riscaldarsi in misura maggiore, permettendo di anticipare la semina e ottenere una più rapida germinazione del seme. Questa lavorazione inoltre rende più agevoli, rispetto al no-till, le operazioni di semina e migliora la protezione del suolo. Infatti, il parziale sminuzzamento del residuo colturale e la sua casuale distribuzione sulla superficie migliora il grado di copertura. Ciò, come è noto, svolge un’azione determinante nel ridurre il run-off, nel proteggere il terreno dall’azione cinetica prodotta dalle gocce di pioggia, nel ridurre l’erosione sia eolica che idrica.
Come una falsa semina
Non trascurabile infine l’azione di controllo che quest’operazione consente di svolgere sulle infestanti. Infatti, da un lato agisce meccanicamente sulle infestanti presenti e, dall’altro, produce le condizioni ideali per la germinazione dei loro semi. In pratica, questa lavorazione superficiale permette di applicare il metodo della falsa semina, che appunto consiste nel preparare il terreno con buon anticipo rispetto alla semina della coltura per favorire l’emergenza delle infestanti. Dopo di che, con un secondo trattamento meccanico (più blando del primo) o con un trattamento chimico, si eliminano le infestanti germinate. Tale approccio inoltre, permette di ridurre realmente la carica di semi di infestanti e di farlo inoltre in modo molto più efficace rispetto all’aratura data la longevità che hanno i semi di molte specie.
Riguardo alla decompattazione le attrezzature descritte hanno un effetto limitato alla crosta superficiale. Nel caso di ormaie prodotte nella fase di raccolta bisogna intervenire anche con ancore che possono essere combinate a utensili a disco per associare alla lavorazione decompattante quella superficiale di preparazione. Le ancore preferite nel vertical tillage sono caratterizzate da un fusto verticale e da una conformazione del piede tale da evitare azioni di lisciatura del solco prodotto. La profondità di lavoro per garantire un’efficace azione di decompattazione dovrebbe essere di almeno 10-15 centimetri più profonda del solco lasciato dalle ormaie.
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