L’attuale campagna produttiva del grano duro ha fatto registrare discrete produzioni e buona qualità. E ci si domanda se la crisi del settore che ha toccato sul fronte prezzi uno dei suoi livelli più bassi nell’annata 2016 non sia solo un brutto ricordo.
L’analisi di Patrizia Marcellini, coordinatrice del settore cerealicolo e servizi dell’Alleanza delle cooperative agroalimentari, è precisa e aiuta a definire lo scenario di riferimento.
Non certo tranquillizzante.
«Sebbene i dati qualitativi e i prezzi di questa campagna produttiva ci lasciano più rilassati – evidenzia – non possiamo considerarci ancora in buone acque. La crisi delle commodity, di cui fa parte anche il grano duro, è profondissima, ha già fiaccato il sistema produttivo e lasciato morti e feriti sul campo. La crisi inizia sempre dalla produzione primaria, anello debole della catena, ma oggi ha ampiamente raggiunto anche il mondo dei servizi e, già da anni, ha coinvolto in maniera negativa anche pezzi importanti della prima e seconda trasformazione».
Occorre dunque interrogarsi su cosa si potrebbe fare per non far morire la filiera della pasta dallo scenario agroindustriale italiano.
Contratti di filiera strategici
«Due sono le parole con cui si possono riassumere le azioni che devono essere intraprese: filiera e sostenibilità. Innanzitutto i contratti di filiera – continua Marcellini –, strumenti idonei per mitigare gli effetti del “pericolo pubblico numero uno” degli ultimi anni: la volatilità dei prezzi. Il grano duro, data la sua piccola entità nello scenario mondiale dei cereali subisce oscillazioni più forti rispetto ad altri prodotti e ciò si ripercuote in maniera negativa sui conti economici degli operatori. Di tutti, ma degli agricoli in particolare, che hanno maglie poderali modeste e si presentano disorganizzati sul mercato».
Una buona organizzazione di filiera implica una forte aggregazione dei produttori e della produzione e Marcellini cita come esempio i principali Paesi competitor nella produzione di grano duro, primo fra tutti il Canada, con filiere più organizzate e corte della nostra, dove l’industria può dialogare con pochi venditori.
Conti deposito da limitare
«In Italia invece – prosegue – abbiamo ancora forti difficoltà in termini di aggregazione dei produttori e della produzione. Basta guardare il cortissimo elenco delle Organizzazioni di produttori nel settore cerealicolo attualmente riconosciute dalle Regioni. Inoltre, sull’aggregazione della produzione pesa anche il conto deposito, che di fatto non consente alla cooperativa di garantire con costanza l’immissione del prodotto sul mercato. In questa maniera si subisce il mercato anziché governarlo, perdendo occasioni importanti. I contratti di filiera sono invece uno strumento utile ai fini della strutturazione dei rapporti di filiera, in primis per gli agricoltori. A livello cooperativo sono stipulati già da diverso tempo, ma ancora in percentuale troppo bassa. L’iniziativa del Ministero delle Politiche agricole di stanziare 10 milioni di euro nei contratti di filiera nel grano duro, è stato sicuramente un ottimo punto di partenza, se non altro per agevolare i rapporti di filiera. Abbiamo dunque accolto con soddisfazione l’annuncio del Ministro Martina che per i prossimi due anni l’aiuto complessivo sarà raddoppiato».
Dunque tutto bene? «Non direi. Occorre trovare una strada per impegnare tutti gli attori della filiera a fare quel passo in avanti che porterebbe a liberarsi, almeno in parte, delle quotazioni delle Borse merci, che il più delle volte penalizzano la parte agricola e non garantiscono la necessaria trasparenza. Quest’anno – puntualizza Marcellini – i livelli qualitativi del grano duro italiano sono abbastanza elevati eppure, secondo le condizioni della Borsa Merci di Bologna, il grano migliore quotato è quello con un 13% di contenuto proteico, rischiando di parificare i prezzi anche per le categorie merceologiche superiori».
«Ma perché – si domanda la Marcellini – non è stato quotato il grano con un contenuto proteico più alto? E soprattutto, perché chi è danneggiato da questa scelta non protesta? La soluzione potrebbe essere quella di quotare la materia prima nazionale stabilendo delle classi merceologiche fisse che vanno dalla qualità eccellente a quella più scarsa. Anche le CUN possono essere un’alternativa alle Borse merci ma rischiano di replicare gli aspetti negativi del sistema attuale e di fatto c’è poco entusiasmo da parte degli operatori. Gli operatori inoltre, soprattutto quelli a monte della filiera, devono avere a disposizione le informazioni per analizzare l’andamento dei mercati mondiali, necessarie a fare bene i conti economici prima di seminare, non dopo»
L’analisi di mercato a livello mondiale è imprescindibile per una sana gestione della fase commerciale soprattutto quando si parla di commodity, diversamente sarebbe come procedere scalzi, disarmati e bendati nella giungla amazzonica.
Il nemico volatilità
«La forte volatilità dei prezzi deve essere gestita da tutti gli anelli della filiera e in particolare dalla parte agricola che la subisce maggiormente. Gli strumenti per la mitigazione della volatilità dei prezzi e dei cambiamenti climatici ci sono: contratti di filiera, assicurazioni e fondi mutualisti. Dovremo verificare se e come i fondi stanziati per le assicurazioni dei ricavi riusciranno a dare risposte in funzione della mitigazione degli effetti della volatilità. I fondi mutualistici, anch’essi ottimo strumento per stabilizzare il reddito, sono al momento finanziati ma non messi in pratica, eppure premianti se ben studiati e attuati: raccolgono fondi dagli agricoltori per ridarglieli in condizioni di crisi, di clima e di mercato, senza che ci sia sottrazione di denaro da parte di terzi, assicurazioni in particolare».
Sostenibilità ambientale
«Questi strumenti – conclude Marcellini - sono utili a mitigare i rischi e a rendere la filiera sostenibile anche in termini di reddito per tutti quanti vi partecipano. Dobbiamo puntare a una sostenibilità economica dell’impresa agricola di fronte ad impegni sempre più “verdi” in capo alle aziende spinti dalle politiche europee ma, soprattutto, dalla sempre maggiore attenzione dei consumatori. L’impegno ambientale che si chiede alla filiera agroalimentare non può rivolgersi solo alla produzione agricola e, soprattutto, occorre ridistribuire su tutti gli operatori il maggior valore riconosciuto dal mercato. Abbiamo davanti una strada fatta di un maggior impegno ambientale, rispetto delle risorse naturali, diminuzione degli sprechi e possiamo decidere se subire queste scelte o perseguirle con convinzione e applicare le nuove regole recuperando marginalità lungo la filiera e valore aggiunto sul mercato. Quando si parla di sostenibilità occorre farlo abbracciando tutti gli attori coinvolti nella produzione e trasformazione affinché garantiscano al consumatore il rispetto di determinati standard ambientali, ma soprattutto per assicurare a ciascun anello della filiera, partendo da quello più debole che è l’agricoltore, la possibilità di avere marginalità positive. Non si può dunque parlare di sostenibilità ambientale senza garantire quella economica all’impresa agricola, anche se di questo tipo di sostenibilità si parla molto meno».
Leggi l’articolo su Terra e Vita 29/2017