Forse buoni o persino straordinari da bere, ma sicuramente anarchici, cioè privi di regole (a eccezione di quelli biologici), e comunque suscitatori di grande interesse. Si presentano così i vini cosiddetti non convenzionali o altrimenti detti “naturali” o “alternativi” (e meglio distinti in biologici, sostenibili, fair trade, environmentally friendly, senza conservanti, senza solfiti, da azienda carbon neutral, a basso contenuto alcolico, biodinamici, orange wine, vegani, senz’alcol). Destinati a un mercato di prossimità, locale, sostanzialmente fondato, prima che sulla bontà intrinseca del vino, quasi sempre su un rapporto diretto di conoscenza e fiducia del consumatore con il produttore: un mercato non per forza limitato, ma sicuramente molto orientato. E quindi necessariamente lontani da mercati che chiedono, anzi esigono, qualità certa, quantità garantite, certificazioni meritate.
Sembra questo l’attuale quadro (e così pure il futuro) di un vecchio/nuovo e specifico comparto della vitivinicoltura italiana e internazionale, almeno secondo quanto emerso dal convegno “I vini non convenzionali. Nuove filosofie e approcci metodologici alle produzioni vitivinicole” tenuto da Università di Foggia, Organizzazione nazionale assaggiatori di vino (Onav) e Solutiongroups srl presso il Dipartimento di scienze agrarie, degli alimenti e dell’ambiente (Safe) dell’Università di Foggia. Un convegno incentrato sulla comprensione delle metodologie di produzione dei vini non convenzionali e intenzionato a chiarire se tali vini possono migliorare la salute umana e l’ambiente, se possono garantire al terroir di trovare in essi la sua migliore espressione, se rappresentano o meno una opportunità interessante per le aziende vitivinicole italiane e in particolare quelle meridionali.
L’innovazione è scegliere come fare per non usare la tecnologia
«Il vino “naturale” è anarchico per sua natura e filosofia – ha sostenuto il Francesco Iacono, direttore nazionale dell’Onav, dopo una introduzione in cui ha dimostrato, attingendo ai social più diffusi, che sulla definizione e sulla sostanza dei vini non convenzionali i pareri sono tanti, discordi e soprattutto estremamente soggettivi –. Molti produttori rifuggono dalle certificazioni e dalle associazioni che offrono filiere di produzioni garantite. È il rapporto con i vignaioli a fare da garante. È il rapporto umano consumatore/vignaiolo alla base della fiducia sulla naturalità. Tenendo conto di tale cornice generale, è opinione comune dei consumatori che questi vini si facciano alla vecchia maniera, seguendo la tradizione e senza particolare innovazione tecnologica. Invece, per ottenere dei buoni vini naturali occorre che le conoscenze scientifiche siano approfondite e specifiche per saper intervenire nella maniera meno impattante possibile, che la conoscenza dell’ambiente sia molto accurata e quella delle vigne, delle uve e degli obiettivi sia molto meditata. In sostanza, se nella viticoltura e nell’enologia convenzionali l’uomo ha la funzione di scegliere la tecnologia, nella viticoltura e nell’enologia non convenzionali ha il compito di scegliere come fare per non usare la tecnologia. Questo è ciò che fanno i produttori più bravi di vini non convenzionali».
Nuovi approcci metodologici nella tecnica colturale in vitivinicoltura
Per produrre vini non convenzionali occorrono nuovi approcci metodologici nella tecnica colturale in vitivinicoltura, ha raccomandato Enzo Mescalchin, già Unità Agricoltura Biologica della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (Tn). «L’idea di fondo, fra i più accorti produttori di tali vini, è il vino come espressione di un terroir, inteso come l’insieme di suolo, varietà, clima e vignaiolo, visto che nell’attuale viticoltura all’impronta del terroir si è progressivamente sostituita quella della tecnologia. Altra idea di base è che il terreno sia un “organismo vivente”, dotato di fertilità chimica, fisica e biologica. Infine l’approccio alla difesa non prescinde dalla messa in pratica di alcuni elementi agronomici come avere vigneti equilibrati, gestire la vegetazione in maniera corretta e tempestiva, considerare la luce e il sole i migliori fattori di contenimento di insetti e funghi».
Il mercato: vini biologici, fair trade, sostenibili
Ma esistono mercati, e quali sono, per i vini non convenzionali? Per Antonio Seccia, docente del Dipartimento Distum dell’Università di Foggia, sia il mercato nazionale sia quelli esteri essi vanno indagati con estrema attenzione per affrontarli senza troppi facili entusiasmi. «I consumi di vino biologico a livello mondiale per l’anno 2022 vengono stimati pari a oltre un miliardo di bottiglie, il 3,7% del totale. In Italia la quota di mercato nel 2018 era l’1,2%, contro lo 0,7% del 2017. Nel 2018 il consumo in Italia è stato circa 5 milioni di litri con un incremento del 18% rispetto al 2017. Anche i “vini fair trade”, legati al mercato equo e solidale, raccolgono crescenti consensi: ogni anno nel mondo ne vengono venduti più di 22,2 milioni di litri. Aumenta anche il numero dei “vini sostenibili”: in Italia esistono 15 programmi che hanno inteso modellizzare approcci allo sviluppo sostenibile del vino».
In Puglia 17.000 ha a vigneto biologico, 3.349,6 ha in provincia di Foggia
E in Puglia che prospettive hanno i vini non convenzionali? Giuseppe Lopriore, docente del Dipartimento Safe dell’Università di Foggia, ha informato che in Puglia per ora i vini non convenzionali coincidono in larghissima misura con quelli biologici. «Sui circa 17.000 ha coltivati a vigneto biologico in Puglia (seconda regione in Italia dopo la Sicilia), 3.349,6 insistono sulla provincia di Foggia. Ma della superficie foggiana meno di 300 ettari appartengono ad aziende vitivinicole esclusivamente bio. Tuttavia queste aziende, poco più di una decina, vantano in generale un’ampia piattaforma ampelografica, molta attenzione ai vini di antica coltivazione o cosiddetti autoctoni, capacità di imbottigliare gran parte della loro produzione e di collocarla su mercati esteri ambiti, quali Giappone, Usa, Canada e Australia. Invece le uve degli altri oltre 3000 ettari bio o vanno a cantine che fra le loro tante referenze ne hanno anche una o più certificate bio (quindi si tratta di vini biologici prodotti più per scelta di mercato che per l'aver sposato integralmente la filosofia del biologico) oppure finiscono in blend con uve non biologiche (pertanto di esse sul mercato al dettaglio del vino in bottiglia si perde traccia del tutto, almeno agli occhi del consumatore)».