Libertà di coltivazione ancora per due anni.
Ma è una libertà condizionata perché la Pac 2023-2027 e l’obbligo di rotazione, nonostante la deroga fino al 2024, fanno già sentire il loro peso sulle semine.
Crisi climatica e impennata dei costi di produzione stanno infatti alimentando una tempesta perfetta che rimette in discussione certezze acquisite sulle colture fino a oggi considerate “da reddito”.
Incertezze che riguardano in particolare frumento duro e mais, ovvero le monoculture che oggi caratterizzano il paesaggio di molti areali del Sud e del Nord Italia. Le previsioni per le prossime semine autunnali e primaverili anticipano infatti un deciso incremento delle alternative rappresentate da frumento tenero (soprattutto), orzo e soia. L’emotività di questi giorni rischia però di condizionare la tenuta delle filiere produttive stimolando un’ulteriore volatilità dei mercati nelle prossime campagne.
Anteprima di Terra e Vita 30/2022
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Meno emotività, più programmazione
Aumentando poi il rischio di scelte obbligate quando servirà invece la massima capacità di programmazione, ovvero quando partirà effettivamente l’obbligo di rotazione. Ma se il grano duro potrà salvarsi grazie alla prevista deroga per l’aridocoltura, lo stesso non sarà possibile per il mais.
«Prima – ricorda Marco Aurelio Pasti – il divieto a coltivarlo nelle aree Efa, poi il condizionamento di Bruxelles per la concessione dell’ecoschema per i sistemi foraggeri estensivi (salvato dal Psp nazionale, vedi TV 28)».
«Sembra proprio – stigmatizza Pasti – che a Bruxelles manchi la volontà politica di difendere una coltura come il mais, storicamente importante non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale e persino ambientale, se non si continuano a tarpare le ali dell’innovazione genetica e digitale».
L’impatto del clima e dell’inflazione
Una coltura che ha accusato nel corso del 2022 l’impatto maggiore sia in termini di riduzione delle rese a causa della forte siccità (-35%) che di aumento dei costi degli input produttivi e dell’energia (+35%). La forte riduzione degli aiuti diretti (da 360 a 180 euro ad ettaro, più gli eventuali 40 euro dell’ecoschema 4) per i raccolti 2023 aggiunge nuovi motivi di disaffezione.
Tra la propria azienda di Eraclea (Ve) e altre che gestisce, Pasti deve programmare in questi giorni il piano colturale di circa mille ettari. «Sacrificherò buona parte degli ettari di mais di primo e secondo raccolto in favore di soia, oppure grano e orzo da trinciato».
Una scelta su cui ha inciso l’andamento climatico. «La siccità ha condizionato fortemente i raccolti e le aziende preferiscono affidarsi a colture che possono sopportare minori investimenti in input tecnici come la soia».
Mercato e contratti di filiera
Di diverso avviso Cesare Soldi, presidente dell’associazione maiscoltori italiani, che continua a dare fiducia alla coltura, riservandole circa un terzo del terreno che gestisce in provincia di Cremona.
«L’annata 2022 ha lasciato il segno – dice – ma ci sono anche segnali positivi che provengono dal mercato, con quotazioni in decisa tenuta a cui vanno aggiunte le premialità dei contratti di filiera». Grazie ai sostegni nazionali sono infatti attualmente sotto contratto di filiera circa 108mila ettari di mais sia per destinazione zootecnica che alimentare: un patrimonio da tutelare per il made in Italy agroalimentare.
Anche perchè un altro elemento favorevole viene dalla statistica: per trovare un’annata simile al 2022 dal punto di vista climatico occorre infatti risalire addirittura a 100 anni fa e le annate successive al 2003 o al 2012, ricordati per gli andamenti siccitosi, sono state invece ampiamente positive per il mais.
La differenza rispetto a queste serie storiche può venire poi, come sempre, dall’innovazione.
Nell’ultimo decennio la tecnica agronomica è diventata decisamente più sostenibile grazie al contributo della digitalizzazione, della messa a punto di efficaci mezzi di biocontrollo di piralide e micotossine e soprattutto della genetica, con la diffusione di ibridi a ciclo più precoce o caratterizzati da una maggiore efficienza idrica. Il paradigma del mais come coltura simbolo di un’agricoltura iperintensiva va decisamente rivisto.
Anteprima di Terra e Vita 30/2022
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Una cabina di regia per piani colturali alternativi
Gli agricoltori hanno bisogno di certezze, soprattutto nel periodo delle semine. Un’esigenza che purtroppo è venuta a mancare proprio a ridosso dell’avvio del nuovo periodo di programmazione della Pac.
L’anomala data delle elezioni politiche ha infatti lasciato un vuoto di potere in un momento in cui serviva chiarezza per scadenze importanti come quella dell’effettivo avvio dell’obbligo di rotazione colturale. Terra e Vita ha soddisfatto questa esigenza ribadendo negli ultimi due numeri che la deroga al 2024 presuppone che l’obbligo di cambiare coltivazione subentri tra tre anni, ovvero dal 2025. Un intervallo di tempo che andrebbe utilizzato proficuamente da MIpaaf e Regioni per evitare che la transizione ecologica produca impatti negativi su importanti filiere produttive come quelle legate al mais.
«C’è una grande “mobilità” in campo - riconosce Matteo Piombino, responsabile marketing di Corteva AgriScience - con aziende che decidono di cambiare orientamento colturale soprattutto a sud del Po». Grazie alla possibilità di utilizzare ibridi a ciclo precoce di nuova generazione, Corteva ha messo a punto rotazioni alternative che consentano di non far perdere terreno al mais.
«Una prima possibilità è quella di seminarlo in secondo raccolto, verso fine maggio, dopo una coltura precoce di loietto da trinciato (esempio 1 in figura). Negli areali in cui la semina tardiva di mais può procurare maggiori problemi per le carenzie irrigue o per gli attacchi di piralide, si può invece pensare ad un mais seminato precocemente a cui far seguire sorgo da trinciato (esempio 2 in figura)».
Rotazioni in grado di fornire risposte adeguate per gli utilizzi zootecnici o bioenergetici, molto meno per quelli alimentari o per la produzione dell’amido, filiere che rimangono a rischio. Gli imprenditori agricoli possono infatti migliorare la propria organizzazione per gestire in maniera professionale le rotazioni; la gestione dell’economia dei territori imporrebbe invece una coesione tra istituzioni e mondo della produzione a cui purtroppo in Italia non siamo abituati.