Si apre uno spiraglio per le Tea, le tecnologie di evoluzione assistita o per lo meno per la tecnica del genome editing?
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea torna infatti a occuparsi di modificazioni genetiche dopo la sentenza inaspettata dello scorso 25 luglio 2018, che aveva escluso le Tea (o Ngt, new genomic technique come vengono chiamate nella normativa Ue) dall’applicazione della deroga alla Direttiva 2001/18 (Novel food), assimilandole di fatto agli Ogm dal punto di vista giuridico.
L’interpretazione di Copa e Cogeca
Copa e Cogeca, le associazioni più rappresentative degli agricoltori Ue, «accolgono con favore la sentenza della Corte lussemburghese nella Causa C-688/2021. «Se il genoma di una specie vivente – è l’interpretazione delle due associazioni- viene modificato senza l'aggiunta di Dna estraneo, non è più soggetto alla direttiva Ogm dell'Ue». Una semplificazione che in realtà non trova riscontro nella pronuncia dell’alta Corte. Giustizia e Scienza parlano infatti linguaggi sempre più discostanti e nel vocabolario giuridico la sigla Dna semplicemente non esiste.
I criteri individuati dalla Corte per cui un organismo prodotto con biotecnologie possa o meno essere considerato un Ogm secondo la normativa Ue sono in realtà più sfumati e arzigogolati, ma andiamo con ordine.
Il solito ricorso francese
Ad investire della questione la Corte di Giustizia europea sono state, anche in questo caso, la Confédération paysanne e altre otto associazioni ambientaliste francesi. Oggetto del contendere la parziale non applicazione della sentenza del 2018 da parte delle autorità francesi a causa del ricorso della Commissione europea contro tale sentenza, in particolare riguardo all’applicazione di regimi giuridici distinti tra mutagenesi casuale in vivo e in vitro.
Nel primo caso si tratta, secondo l’interpretazione avallata dalla Corte, di agenti mutageni impiegati sulla pianta intera o su parti di piante, considerate già “tradizionali” e “sicure” dalla normativa vigente. “In vitro” si riferisce invece all’applicazione di agenti mutageni su colture cellulari e, secondo l'interpretazione di Copa-Cogeca e di alcune agenzie internazionali, riguarda anche l’applicazione della tecnica del genome editing tramite Crispr-Cas9.
La nuova pronuncia della Corte evidenzia le doti di equilibrismo dei giudici nel salvare “capra e cavoli”, ovvero nel cambiare, almeno parzialmente, l’esito della pronuncia del 2018 senza sconfessarla.
Tre quarti della nuova pronuncia ricalcano infatti, quasi letteralmente, la precedente sentenza richiamandosi al principio di precauzione enunciato dalla Direttiva Novel Food.
Cambia la musica
Il tono cambia dal capoverso finale che inizia con un “Nondimeno…” di parziale smentita. La Corte si accorge infatti che la deroga prevista dalla normativa di inizio millennio non avrebbe senso se dovesse essere negata a qualunque tecnica diversa rispetto a quelle, arcaiche, messe a punto nel’900.
«Pertanto – si legge nella pronuncia -il fatto che una tecnica o un metodo di mutagenesi abbia una o più caratteristiche distinte da quelle di una tecnica o di un metodo di mutagenesi utilizzati convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza giustifica l’esclusione della deroga prevista solo quando sia dimostrato che tali caratteristiche possono comportare modificazioni del materiale genetico dell’organismo interessato diverse (per la loro natura o per il ritmo con cui si verificano) da quelle risultanti dall’applicazione di tale seconda tecnica o di tale secondo metodo di mutagenesi».
Onere della prova ribaltato
Di fatto la Corte ribalta quindi l’onere della prova: non è più chi propone l’iscrizione di una nuova varietà ottenuta da mutagenesi in vitro a dover dimostrare, oltre alla sicurezza, anche la “tradizionalità” e la “naturalità” di tale innovazione, ma al contrario dovranno essere le associazioni che contestano la registrazione a dover dimostrare il contrario.
I criteri giuridici con cui vengono affrontate le nuove tecnologie, e tra queste le Tea e tutte le altre novità biotecnologiche che ci aspettano, rimangono tuttavia avvolti da un’aleatorietà che rischia di fare rimanere indietro l’agricoltura del vecchio continente.
In particolare:
- l'indefinito principio di precauzione mostra sempre più la corda perchè non ha un senso giuridico compiuto, meglio sarebbe riferirsi a cornici giuridiche più chiare dei concetti di sicurezza alimentare e ambientale;
- il criterio di “tradizionalità” applicato a una nuova tecnica è destinato in sé a diventare nel tempo sempre più penalizzante;
- il ritmo o la velocità di modificazione, a cui anche la nuova sentenza fa appello come pilastro per definire se una nuova tecnica sia assimilabile ad una vecchia, non ha senso a livello giuridico e anche a livello scientifico è stato spazzato via dalla scoperta della relatività.
La Commissione svolga il suo ruolo
La sentenza della Corte non toglie quindi le “castagne dal fuoco” ad una Commissione europea che è in forte ritardo rispetto all’obiettivo dichiarato di aggiornare la disciplina ormai antiquata della Direttiva Novel Food.
L’intervento del legislatore è fondamentale ed è richiesto a gran voce.
«L'agricoltura europea – raccomandano Copa e Cogeca- deve poter accedere ai vantaggi dell'innovazione per essere più sostenibile e raggiungere gli obiettivi fissati nel Green Deal». «I selezionatori di piante dovrebbero essere liberi di prendere in considerazione alcune tecniche di mutagenesi nei loro programmi di miglioramento genetico, riducendo di circa 10 anni il tempo di commercializzazione di nuove varietà».