Un disciplinare di coltivazione del grano duro che predilige la meccanica alla chimica per combattere le malerbe e limita al minimo i trattamenti contro crittogame e fitofagi. Una soglia minima per le proteine fissata a 13,5 e a 80 per il peso specifico. Il supporto costante di un agronomo che indica quali varietà piantare, come concimare e quando trattare. Ma anche un premio di 40 euro a tonnellata rispetto ai prezzi del listino Ager Bologna a cui si aggiungono i 100 a ettaro corrisposti da Agea a chi sottoscrive un contratto di filiera triennale. Una produzione media di 45 quintali a ettaro con costi di produzione che superano di poco i mille euro per unità di superficie.
Questi i numeri più importanti della filiera del grano duro de La Campofilone. Un percorso dal campo alla tavola lungo il quale si trasforma la materia prima a km zero in semola e poi in pasta di qualità superiore, grazie anche al metodo di lavorazione a basse temperature, che, promette il patron Enzo Rossi «la rende adatta ai celiaci».
Grano duro, l’importanza del dove
La Campofilone nasce nel 1912 come trattoria al centro dell’omonimo paese in provincia di Fermo nel quale sono nati i famosi Maccheroncini Igp. Negli anni ’60 diventa un laboratorio di pasta a produzione artigianale. Nel centenario della fondazione è diventata un’azienda agricola a filiera chiusa con una fattoria di 120 ettari all’interno della quale si producono tutte le materie prime necessarie alla produzione della pasta. «Quest’anno abbiamo raccolto 93 ettari di grano duro – racconta Rossi – di cui 3 di proprietà, 40 in affitto e 50 in contratto di filiera, condotti da tre agricoltori. L’intenzione è quella di aumentare la superficie: stiamo perfezionando l’acquisto di altri 50 ettari».
Gli appezzamenti sono piccoli, a un’altezza compresa tra 150 e 350 metri sul livello del mare, in prevalenza sciolti. Caratteristiche che consentono un miglior arieggiamento e un minor ristagno d’acqua. Un ambiente poco favorevole allo sviluppo di micotossine e alla crescita di altri microrganismi: ciò permette di ridurre al minimo i trattamenti. Per avere una miscela di grani con caratteristiche particolari, oltre a coltivare più di una varietà, Rossi sceglie terreni ubicati in diverse valli della zona.
Grano duro: l’importanza del come
Per contrastare le infestanti riducendo al minimo l’uso di fitofarmaci i terreni sono lavorati con l’aratro. Dopo la mietitura le paglie vengono raccolte per evitare lo sviluppo di funghi, quindi si esegue un’erpicatura superficiale che assomiglia a una falsa semina, infine si ara. «Per la concimazione di fondo, necessaria per un buon accestimento e per le prime fasi di sviluppo delle piante, utilizziamo prodotti organici o misto organici con fosforo solubile in acqua e azoto naturalmente protetto – spiega l’agronomo de La Campofilone Giorgio Galandrini – le azotate di norma sono tre: la prima con nitrato ammonico, le due successive con prodotti contenenti solfato ammonico urea e zolfo. Il frazionamento ci consente di supportare le coltivazioni in ogni fase, di ottimizzare, di ridurre le perdite per dilavamento, contribuendo al rispetto dell’ambiente e al conseguimento di tangibili risultati nel campo della sicurezza alimentare».
I quantitativi dipendono dalle precessioni, dall’andamento pluviometrico, dalla possibilità di accedere tempestivamente negli appezzamenti. «Indicativamente somministriamo 160-180 unità di azoto per ettaro – precisa Galandrini – ma non dimentichiamo lo zolfo, mesoelemento importantissimo per ottenere caratteristiche nutrizionali, merceologiche e tecnologiche superiori, indice di glutine (quantità/qualità), valori alveografici ottimali, contenuto proteico, una ridotta bianconatura, un minor accumulo di nitrati».
La rotazione è di tre anni, con il grano al quarto. «I risultati migliori in termini di qualità si ottengono dopo la medica – ammette il tecnico – perché aumenta l’azoto e accresce la sostanza organica. Molto buono anche il favino grazie ai rizomi delle radici che muovono il terreno». Le semine avvengono tra ottobre e dicembre. Quest’anno la filiera si allargherà a circa 120 ettari di grano duro. Per le varietà precoci si utilizzano 240-260 kg/h di seme, per le tardive anche 300 kg/h.
Grano duro: l’importanza del cosa
Le varietà che vanno a comporre il blend dal quale si ricava la semola che sarà trasformata in pasta sono “Dylan” di ciclo medio tardivo/tardivo, “Odisseo” a ciclo medio e il precoce “Tirex”. Prima di introdurre una nuova varietà, la performance produttiva viene testata per tre anni. Il raccolto viene “invecchiato” in silos refrigerati a una temperatura di massimo 18° C per 6/8 mesi: «Questo permette sia di non utilizzare fungicidi durante la conservazione, sia di ottenere una molecola di amido più digeribile – sottolinea Rossi – ma quello che fa davvero la differenza per la nostra pasta è il fatto che la miscela sia composta in modo da avere un prodotto uguale tutti gli anni».
Quest’anno è stato particolare, fino a un certo punto il clima è stato molto secco quindi il grano ha avuto uno scarso accestimento. Poi, come noto, è arrivata la pioggia, anche troppa. Proprio in questi giorni c’è stata la trebbiatura: la qualità è molto buona, le rese un po’ meno, soprattutto per le varietà precoci.
Quattro parametri fondamentali: minimo 13,5 di proteine, minimo 81 di peso specifico, poi valore del glutine e intensità del colore, misurati con appositi strumenti. «Se una partita non rispetta questi parametri non entra nella miscela di grani con i quali facciamo la pasta – taglia corto Rossi – ma devo dire che c’è una crescita culturale degli imprenditori della zona quindi non è difficile trovare agricoltori che vogliono sottoscrivere il contratto di filiera La Campofilone. Sta passando il concetto che solo con la qualità l’agricoltura italiana può sopravvivere. Lo scetticismo resta – conclude – ma nel giro di 4-5 anni i frutti di questo investimento sull’eccellenza si potranno cogliere».
Pasta, l'importanza del tempo e delle basse temperature
Una lenta lavorazione durante la quale la pasta di semola non supera mai i 30° C, un’essiccazione che dura non meno di 24 e fino a 48 ore, mai oltre i 36° C. È nascosto nel significato di questi pochi numeri il segreto della pasta La Campofilone. Un metodo produttivo possibile solo con grani di qualità.
«Un tempo le massaie impastavano, anzi ancora impastano, su lastre di marmo, che è una pietra fredda, quindi non riscalda l’impasto – spiega Enzo Rossi – per questo i nostri macchinari sono raffreddati tramite un sistema brevettato, in questo modo permettiamo alla sfoglia di non superare mai i 30 gradi durante l’estrusione a bronzo. Sono temperature alle quali è più difficile lavorare – fa notare Rossi – ma in questo modo il suo amido gelatinizzato sarà trattenuto nel reticolo proteico e una volta cotta la pasta sarà tenace, elastica e non collosa». L’impasto è composto solo da uova prodotte dalle galline di La Campofilone e semola di grano duro.
L’essiccazione è fondamentale per la porosità della pasta, perché l’umidità traspira fuori dalla sfoglia lentamente e crea piccoli fori invisibili a occhio nudo. «Le basse temperature sono importanti anche per tenere bassi i valori della furosina (il principale indice di danno termico ndr) – aggiunge Rossi – che si arrestano a valori nettamente inferiori ai limiti di legge».
Dal 2012 La Campofilone collabora con i centri di ricerca delle Università di Teramo, Chieti-Pescara e Florianópolis (Brasile). I risultati di uno studio relativo all’indice glicemico della pasta marchigiana evidenziano il basso indice glicemico, grazie all’alta qualità delle materie prime e al sistema di lavorazione controllato.
Non solo pasta: sarà come una fattoria dell'Ottocento
Un progetto che sta per diventare realtà: trasformare l’azienda agricola di località Ficiarà in una fattoria autosufficiente com’erano quelle dell’Ottocento.
Nei nove ettari di terreno de La Campofilone sorgerà quindi un frutteto dove saranno piantati alberi delle principali varietà della Valdaso: mele, pere, susine, albicocche e pesche. Nell’orto si coltiveranno verdure di stagione. Ci saranno anche un oliveto e una vigna dove si alleveranno Montepulciano, Sangiovese e Merlot per produrre una limitatissima quantità di bottiglie.
A completare la fattoria un forno per il pane, l’allevamento di animali da cortile (pecore, agnelli e tacchini), tra cui quello delle galline ovaiole che già oggi producono le uova per la pasta. Il laghetto sarà la casa di oche, anatre e papere, ma anche delle trote. Non mancherà la produzione di latte e formaggi di mucca e di capra. Tutto questo servirà per creare il menu di un ristorante da 300 coperti.
«Il servizio sarà “a carrello” - precisa Rossi - perché voglio che la gente veda da vicino le pietanze e ne senta i profumi prima di scegliere quali mangiare».
All’interno della struttura saranno allestiti anche dei percorsi didattici e dei laboratori dove i visitatori potranno trasformare i prodotti e infine mangiarli. Saranno organizzate cene a tema con abbinamenti di vini di cantine locali. Insomma: una filiera chiusa a km zero: l’utopia dell’agricoltura moderna diventa realtà.