Cereali in crisi, in fondo a tutte le classifiche di redditività. Una situazione che penalizza l’intero sistema agroalimentare italiano e da cui, secondo Giorgio Mercuri, presidente di Alleanza delle cooperative agroalimentari, si può uscire solo spingendo l’acceleratore sulle politiche di filiera.
«La situazione del grano duro – dice – è paradossale: la pasta è forse l’unico prodotto in cui la filiera è tutta italiana, non ci sono player stranieri di peso sul nostro mercato. L’attenzione sul tema dell’origine non è mai stata così alta, l’import da aree storiche come il Canada è in diminuzione anche per la forte attenzione al tema dei residui, eppure il prezzo della materia prima nazionale fatica a crescere, causando difficoltà a una coltura che è alla base delle rotazioni, ormai non solo al Sud».
Stop al sottocosto
Proprio per fare fronte a questa situazione il ministro Centinaio ha convocato il tavolo grano-pasta a metà dicembre, stanziando 20 milioni per la filiera.
«Un’iniziativa di valorizzazione – commenta Mercuri – a cui diamo tutto il nostro contributo. Un’esperienza che vogliamo allargare anche alla filiera grano tenero-pane.
Ma se si vuole dare vero valore alla nostra origine e alla sostenibilità dei metodi di produzione, allora occorre uscire dalla logica delle vendite sottocosto, come quelle proposte in questi giorni da alcune catene della grande distribuzione su etichette di pasta a private label e pure bio.
Le politiche di valore non si possono sposare con le strategie commerciali sul prezzo: la pasta non è più un bene di prima necessità, o almeno non quella a origine tracciata, e il paradosso è che i prezzi bassi non penalizzano solo i produttori che, schiacciati dal peso delle basse quotazioni della materia prima, finiscono per seminare altro, ma abbassano anche la marginalità dei trasformatori, che non trovano più le quantità necessarie in Italia e si devono rifornire all’estero a costi maggiori. E nemmeno alle catene della grande distribuzione, costrette, per l’appunto, a deprimenti sfide all’ultimo centesimo».
Il ruolo della cooperazione
Alleanza delle Cooperative dà il suo contributo partecipando anche al patto di filiera grano-pasta (clicca qui per saperne di più), una partnership che unisce tutta la filiera dai fornitori di mezzi tecnici (Compag e Assosementi) ai trasformatori (Italmopa e Aidepi).
A che punto è questa iniziativa?
«Il protocollo d’intesa mira ad aumentare la disponibilità di frumento italiano di qualità, prodotto in modo sostenibile, anche grazie a incentivi legati al raggiungimento di elevati standard, rafforzare le strutture di stoccaggio per concentrare l’offerta in strutture attrezzate, stimolare formazione e ricerca, promuovere e difendere in maniera coesa l’immagine della pasta italiana.
Obiettivi comuni impensabili fino a poco tempo fa. Una sfida a cui le cooperative possono rispondere fornendo le garanzie della tracciabilità informatica (la blockchain è la tecnologia del futuro e va assolutamente gestita anche dal lato della parte agricola), in modo da poter soddisfare le esigenze anche dei consumatori più attenti.
L’obiettivo da raggiungere è quello della riconoscibilità e il mondo cooperativo ha un ruolo chiave perché può mettere in campo la capacità di programmare le produzioni e di creare valore aggiunto rispondendo alle tensioni che oggi condizionano la percezione della qualità del grano duro e degli altri cereali».
La sfida della riconoscibilità
L’integrazione, verticale e orizzontale, fa del resto parte del DNA della cooperazione.
«La cooperativa rimane il modello più compiuto d’aggregazione e d’integrazione tra parte agricola e trasformazione. Le esperienze accumulate nel settore del latte, del vino e dell’ortofrutta, dove da parecchi anni l’integrazione di filiera è favorita da precise politiche comunitarie, mostrano che questo modello è decisivo non solo per valorizzare la materia prima o per consentire investimenti e approcci comuni sui mercati, ma anche per garantire qualità è tracciabilità.
Vale la pena ricordare che, come attestano i dati dell’Osservatorio ministeriale sulla cooperazione agroalimentare, negli anni peggiori della crisi economica, sono state proprio le cinquemila aziende cooperative a reggere meglio, tenendo nell’occupazione, aumentando nel fatturato e contribuendo in maniera decisiva ad aumentare la quota dell’export del made in Italy.
Vogliamo diffondere questo modello anche al settore cerealicolo, per rispondere nello stesso modo alle aspettative dei consumatori anche grazie all’attenzione del mondo della scienza e delle istituzioni di ricerca che hanno accettato questa sfida».
Il contributo della ricerca
Il patto di filiera grano - pasta vede infatti in campo anche l’Università della Tuscia, con quale ruolo?
«La conoscenza è l’ingrediente base di ogni strategia che abbia come obiettivo il valore. Conoscenza innanzitutto di sè stessi e delle proprie potenzialità, attraverso una mappatura delle caratteristiche strutturali del grano duro italiano, primo passo per definire disciplinari che riguardino la produzione in campo e anche lo stoccaggio in magazzino e contratti di coltivazione a cui possono già aderire 6mila aziende agricole per oltre 100mila ettari di superficie. E poi anche conoscenza dei nostri competitor: una prima ricerca ci sta infatti permettendo di monitorare le classificazioni merceologiche utilizzate nelle borse merci internazionali, riscontrando differenze significative riguardo agli standard di qualità premiati dai listini».
Una premialità che spesso viene vanificata dalla volatilità dei prezzi internazionali, penalizzanti soprattutto nel periodo delle mietiture.
«La collaborazione con l’Università della Tuscia mira proprio a fare uscire la produzione italiana da questa aleatorietà. È in corso un intenso studio per definire i costi di produzione dei diversi distretti cerealicoli italiani e delle tre macroaree Nord, Centro e Sud per definire contratti di coltivazione in grado di remunerare adeguatamente questi costi, liberando i produttori dagli effetti più nefasti di questa volatilità. I primi risultati saranno diffusi quest’anno per essere operativi entro le semine 2020. Per ottenere qualità occorre fornire vero valore».
I numeri
Alleanza Cooperative Agroalimentari associa oltre 5.000 cooperative agro-alimentari, 800.000 soci produttori, 93.000 addetti, per un fatturato di 35 miliardi di euro, pari al 25% del valore della produzione italiana.
La cooperazione agroalimentare rappresenta inoltre:
- il 50% della Plv del vino
- il 40% del comparto ortofrutticolo
- il 60% della produzione di latte italiano
- il 70% circa del fatturato dei formaggi dop (in primis Parmigiano Reggiano e Grana Padano)
- il 70% della produzione lorda del settore avicunicolo (uova, carne di pollame, conigli)
- Il 45% del fatturato del comparto cereali- grandi colture.
«Occorre mettere in sicurezza il riso italiano»
Più regole certe e meno dazi. È la strada indicata dall’Alleanza delle Cooperative, da sempre favorevole ad accordi internazionali come il Ceta, firmato tra Ue e Canada (e in attesa di ratifica da parte del nostro Paese), per favorire la crescita dell’export agroalimentare nazionale.
Sul riso però l’Alleanza è stata tra le prime a chiedere la reintroduzione della clausola di slavaguardia nei confronti delle importazioni dal Sud-Est asiatico: è la logica dei due pesi e due misure?
«Il ripristino dei dazi – risponde Giorgio Mercuri – sull’import da Birmania e Cambogia è un sicuro successo per l’Italia e per i nostri risicoltori.
Alleanza delle cooperative è stata tra le prime a chiederlo a Bruxelles, già alla fine del 2017. Si tratta infatti di una produzione in cui il nostro Paese è di gran lunga il più importante produttore in Europa e c’era assoluto bisogno della clausola di salvaguardia per mettere in sicurezza il riso italiano.
Le eccessive aperture europee mettevano infatti in competizione le nostre produzioni con quelle di Paesi terzi con costi bassissimi e standard non confrontabili. L’obiettivo di aiutare questi Paesi finiva così per mettere in difficoltà l’intero sistema produttivo italiano.
Il ripristino dei dazi per questi due Paesi non mette ancora in sicurezza il riso italiano, ma contribuisce a portare parità di condizioni e una maggiore equità nel commercio comunitario. Oggi il riso può tornare ad essere un’opportunità per i produttori agricoli, senza che nessun importatore si senta per questo danneggiato.
Anteprima a Terra e VIta 4/2019
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