L’Italia è il primo produttore di soia dell’Unione europea, ma gli oltre 300mila ettari sono briciole se raffrontati a paesi come Stati Uniti o Brasile. Ora, tuttavia, anche l’Europa dell’Est si sta attrezzando per la coltivazione in massa di questa oleaginosa e se scendono in campo paesi come l’Ucraina, che può contare su milioni di ettari di superficie, è chiaro che il nostro ruolo è destinato a diventare ulteriormente marginale. A meno che non si sia in grado di puntare su un valore aggiunto di qualche tipo, che differenzi la soia made in Italy da una qualsiasi commodity.
Lavorare su un sistema integrato
Questo valore aggiunto può essere dato dai contratti di filiera ed è per questo che i tentativi in atto sono da guardare con particolare interesse: grazie a essi, è possibile creare un sistema integrato tra agricoltori, stoccatori e trasformatori che sia in grado di valorizzare la soia nazionale e i suoi punti forti: alto tasso proteico, sicurezza alimentare, assenza di fitofarmaci pericolosi e garanzia di esenzione dal transgenico, ormai utopistica per la soia d’Oltreoceano.
Grazie alla filiera – ed è questo il suo scopo in verità – tutti guadagnano qualcosa: gli agricoltori ottengono un premio aggiuntivo sul prezzo di mercato e la certezza del ritiro, i trasformatori possono rivendere un prodotto certificato e, come vedremo, talvolta anche sostenibile. Le catene della grande distribuzione, infine, vengono incontro a una precisa richiesta dei loro clienti, che è per l’appunto di avere alimenti a base di soia non Ogm e prodotta con criteri di basso impatto ambientale.
Nate da pochi anni, le filiere della soia si stanno sviluppando e crescono in modo costante, sebbene non impetuoso. Secondo gli addetti ai lavori, il trend è destinato a mantenersi anche nei prossimi anni, per diversi motivi: dallo sviluppo del consumo di proteine alternative alla carne, alla sempre più attenta coscienza ambientale dei consumatori. Senza dimenticare, infine, le raccomandazioni dell’Unione europea in materia di proteine sostenibili, sfociate nei Psr attualmente in vigore.
Il caso Cereal Docks
Cereal Docks, importante gruppo con sede a Camisano Vicentino, da ormai sette anni ha scommesso sui contratti di filiera, non soltanto per la soia. «Ne abbiamo anche per mais, girasole e altri prodotti», ci conferma Elisa Valeri, responsabile delle filiere sostenibili. Quella della soia, tuttavia, è particolarmente importante, se non altro perché raggruppa ormai 85mila ettari di superficie e riguarda l’80% circa della soia trattata dal gruppo vicentino. «Abbiamo puntato con forza sulle filiere da ormai qualche anno, raggiungendo infine questo importante traguardo», precisa la responsabile.
Quella di Cereal Docks, come evidenzia la qualifica di Elisa Valeri, non è soltanto una filiera di tracciabilità, ma anche di sostenibilità. «Interpretiamo questo termine in tre accezioni: ambientale, economico e sociale. Quando iniziammo, nel 2012, eravamo interessati esclusivamente alla sostenibilità ambientale, ma con il tempo ci siamo resi conto che questo concetto si allarga anche ad altri aspetti e da quattro anni le nostre filiere abbracciano un’accezione più ampia di sostenibilità, riassunta nel marchio Sistema Green, con cui identifichiamo i nostri prodotti di filiera e che vuol promuovere la coltivazione di soia nazionale, sicura e certificata».
Il meccanismo è quello classico: gli agricoltori – situati in larga parte in Veneto, Emilia e Friuli – conferiscono il prodotto direttamente a Cereal Docks o a un centro di stoccagio convenzionato e si impegnano a rispettare un disciplinare volontario. «Nel caso della soia, il Dtp 112 di Csqa per cereali e semi oleosi sostenibili», precisa Valeri. I parametri sono bene o male quelli soliti: lotta integrata, assenza di Ogm, tracciabilità totale del prodotto, sicurezza sul lavoro e stipendi in linea con i contratti di lavoro, etica ambientale e sociale. «Il primo requisito – forse non fondamentale per l’Italia ma essenziale altrove – è che i terreni utilizzati siano a seminativo almeno dal 2008, per evitare rischi di disboscamento».
La soia coltivata con questo metodo diventa olio, ma arriva anche all’industria dei prodotti da forno e, infine, a quella mangimistica, che sta sviluppando proprie linee No Ogm.
L’interesse verso le filiere, come abbiamo precisato sopra, è d’altra parte in crescita a tutti i livelli: «Le nostre superfici sono in continuo incremento e siamo ormai arrivati a un valore molto interessante. Secondo le nostre previsioni, la domanda di prodotti certificati e di conseguenza l’adesione alle filiere aumenterà anche nei prossimi anni, dando un valore aggiunto alla soia e facendone uno strumento importante per il sostegno dell’agricoltura».
L’alto proteico di Soia Italia
Passiamo da una filiera ben avviata a una in corso di attivazione. Soia Italia è un’associazione fondata nel 2014 per sostenere lo sviluppo di soia di qualità e non Ogm nel nord Italia. «Dopo qualche anno di preliminari, dal 2018 abbiamo iniziato a ritirare prodotto, in totale 18mila tonnellate. Già da questa campagna, tuttavia, contiamo di triplicare le quote, passando da 5mila a 15-20mila ettari e nel 2020 vorremmo aumentare ancora la superficie», ci spiega Pietro Ciriani, responsabile di Soia Italia per Sipcam.
L’azienda sementiera è uno dei due pilastri dell’associazione, assieme a Cortal Extrasoy, azienda mangimistica con sede a Cittadella (Pd). «Ci sono poi due soci ulteriori: Oleificio San Giorgio e Soia Donau, l’associazione europea per la coltivazione della soia di qualità, al cui disciplinare ci rifacciamo per le nostre coltivazioni».
Il progetto di Soia Italia, spiega ancora Ciriani, nasce dalla constatazione che la produzione italiana, sebbene importante, non ha possibilità contro le superfici investite in America o Ucraina. «Con i nostri 300mila ettari non possiamo andare lontano, soprattutto ora che l’Ucraina punta fortemente su questo prodotto. Facendo peraltro un ottimo lavoro, sia dal punto di vista agronomico sia di omogeneità.
Rispetto a soia di oltre Atlantico, la produzione ucraina ha anche il vantaggio di richiedere bassi costi di trasporto, paragonabili a quelli del trasferimento su camion in Italia. L’unica possibilità per noi – prosegue Ciriani – è di puntare su varietà alto-proteiche, per dare al mercato qualcosa che i grandi produttori mondiali non possono offrire». Vale a dire un prodotto certificato, libero da Ogm ma al tempo stesso con un tasso di proteine ben superiore alla soia comune. «L’Italia, grazie al suo territorio, è già in vetta alle classifiche per contenuto di proteine. Investendo sulle giuste sementi possiamo aumentare ulteriormente il divario, diventando molto interessanti per un certo tipo di mercato».
Questo, soprattutto, perché esiste una domanda, peraltro in crescita, di prodotti di questo genere. «La trasformazione richiede soia ad alto tenore di proteine e d’altra parte la certificazione di origine e di qualità è ormai indispensabile per lavorare con certe catene di supermercati, tipicamente quelle del Centro Europa. L’attenzione nell’uso della chimica, il rispetto di alcune regole di produzione, la certificazione di esenzione dagli Ogm sono tutti fattori che aumentano l’interesse per prodotti come il nostro e possono fare molto bene al mercato italiano».
Anche Ciriani concorda sulle buone prospettive per il settore. «La domanda di proteine vegetali è in aumento e nel consumatore c’è sensibilità sull’importanza di un’alimentazione variata e non basata esclusivamente sulla carne. È un mercato in crescita, dove vi sarà sempre maggior competizione. Per questo, di fronte a paesi che fanno della quantità e del prezzo la loro forza, è importante che l’Italia si distingua con un prodotto di qualità elevata. Non diventeremo certo l’Ucraina o il Brasile, ma arrivare a 350mila ettari non è utopistico. Soprattutto se il prezzo dovesse avvicinarsi ai 400 euro per tonnellata».
Anteprima Speciale Soia di Terra e Vita 5/2019