La zootecnia italiana sta vivendo un momento difficile, che purtroppo trova posto nel più vasto quadro dell'intero settore primario, in stato di sofferenza per una crisi strutturale, che non riguarda solo il mondo agricolo, ma l'intera filiera agroalimentare.
La politica agricola comunitaria è stata impostata sulla base delle emergenze degli anni Settanta e Ottanta: emergenze determinate dalla rivoluzione agricola, che prima ha permesso di coprire le esigenze alimentari della popolazione, poi – troppa grazia! – ha progressivamente saturato i mercati fino a creare immense e costose eccedenze. Fino a che si trattava di cereali, piuttosto facili da conservare e trasportare, erano rose e fiori: ma le carni, il burro o il latte richiedono processi di trasformazione e locali di conservazione costosi, il vino spesso veniva prodotto solo per andare in distilleria e molta frutta fresca (come gli agrumi) prendeva la via della discarica, dove i cingolati risolvevano il problema, almeno per un altro anno.
Da una politica di sviluppo, necessaria per sfamare i cittadini della Comunità economica europea, come si chiamava allora, si è gradualmente passati alla strategia opposta, quella del disincentivo alla produzione: freni ai prodotti della zootecnia (quote), freni ai cereali (set aside), freni a tutto il resto, con la progressiva estensione dell'organizzazione comune di mercato a ogni produzione agricola, fino all'indipendenza, totale o parziale, fra aiuti diretti ed effettiva coltivazione (disaccoppiamento).
Ma il nocciolo del problema non sta nelle politiche comunitarie, quanto nella risposta che il settore primario dà al mercato: ogni processo produttivo lavora sulla base di ciò che chiede il mercato, arrivando persino ad avviare la produzione solo su ordinazione. È giusto: chi deve costruire una mietitrebbia, che comporta un costo industriale di oltre 100 mila euro e alcune settimane di lavorazione, deve cautelarsi contro il rischio che il cliente cambi improvvisamente idea o non abbia più il denaro sufficiente.
È giusto, ma non è equo, nel senso che fuori da una logica industriale o commerciale le cose vanno molto diversamente. L'ingrassatore che deve riempire la stalla e iniziare un nuovo ciclo investe la stessa cifra della fabbrica di mietitrebbie, ma le somiglianze finiscono qui. A differenza dell'industriale, l'allevatore non ha nessuna garanzia, né sul prezzo dei capi da macello, né sull'effettiva possibilità di riuscire a vendere gli animali nella ristretta finestra temporale che precede la caduta dell'indice di conversione. L'alta rischiosità delle produzioni agricole dovrebbe presupporre una remunerazione congrua che compensi almeno le numerose incertezze: invece il prezzo lo fa – o dovrebbe farlo – il mercato. Già, ma chi è che fa il mercato?
CHI È CHE FA IL MERCATO?
Non solo le regole dell'economia: la legge della domanda e dell'offerta funziona nel cosiddetto “mercato perfetto”, caratterizzato da assoluta trasparenza e da un insieme di condizioni che nella pratica non sempre si realizzano.
Se, dai concetti astratti e dalla teoria economica ci caliamo nella dura e cruda realtà, ci rendiamo subito conto che il concetto di perfezione non si addice ai prodotti agricoli, che presentano alcuni gravi difetti: hanno un costo di produzione molto elevato rispetto alla resa, pesano tanto e richiedono sistemi di conservazione appropriati. Per questo motivo il produttore si trova nella condizione obbligata di doversi disfare di ciò che ha prodotto, tanto più velocemente quanto maggiori sono le difficoltà di conservazione. Se il processo produttivo non può essere interrotto o ripreso tirando una leva (come avviene nella maggior parte degli stabilimenti industriali), ma una volta avviato si ferma solo alla sua naturale scadenza (come accade invece per le vacche in lattazione), la necessità di vendere diventa una questione di vita o di morte e il prezzo rischia di non essere più importante.
Questi cicli produttivi, caratterizzati da un funzionamento indipendente, nel breve periodo, dalle condizioni di mercato, presentano il medesimo grado di vulnerabilità anche rispetto all'approvvigionamento di materie prime, come dimostra l'andamento altalenante dei prezzi di fieni e paglie, che appaiono del tutto indipendenti da quelli dei principali prodotti della zootecnia, carne o latte. Chi fa davvero il mercato tutto questo lo sa. E, se può trarne vantaggio, ne approfitta.
Gli aspetti legati alla meccanizzazione, in una situazione tanto critica, tendono a passare in secondo piano, pur presentando caratteristiche degne di uno specifico approfondimento. Ciò avviene specialmente a causa della notevole incidenza dell'impiantistica aziendale sui costi di produzione, che tende a lasciare in disparte le macchine che non operano a punto fisso o in collegamento permanente con strutture fisse. L'uso quotidiano di molte attrezzature lascia inoltre intuire che i relativi costi di esercizio possano essere facilmente ammortizzati. Infine, la mancanza di soluzioni alternative spinge a considerare alcuni costi come un fatto ineluttabile, o quanto meno non modificabile.
UNIFEED, MACCHINE DA ALMENO 550 ORE/ANNO
Prendiamo ad esempio il carro miscelatore, attrezzatura assolutamente indispensabile in stalla e della quale non è più possibile fare a meno. Anche quando i tempi di utilizzo sono limitati a un'ora e mezza al giorno, fra trasporti, miscelazione e alimentazione del bestiame, parliamo sempre di 550 ore all'anno, che rappresentano un valore di tutto rispetto nel mondo agricolo. La natura stagionale di molte lavorazioni prevede, infatti, finestre temporali piuttosto ristrette che, insieme al rischio meteorologico, determinano tempi di utilizzo davvero striminziti. Se poi aggiungiamo l'elevata produttività oraria che caratterizza alcuni cantieri, ci rendiamo conto che sono ben poche le macchine agricole che possono vantare un grado di utilizzazione annua paragonabile a quella di un carro miscelatore.
Se restiamo nel settore delle colture erbacee, possiamo infatti osservare che un aratro o una seminatrice hanno in media prospettive di lavoro assai modeste e questo spiega la convenienza di ricorrere al contoterzista per operazioni che si realizzano con scarsa frequenza. Ma quando una macchina deve essere impiegata con cadenza giornaliera, come avviene per il desilatore o il miscelatore, non ci sono alternative all'acquisto.
Può sembrare strano a questo punto parlare di costi: se la macchina è una scelta obbligata e se le ore di lavoro nell'arco dell'anno raggiungono un livello soddisfacente, a che serve sedersi a tavolino a fare dei conti? In realtà nessun imprenditore può oggi permettersi di agire in modo approssimativo, con la ristrettezza di margini che caratterizza l'attuale congiuntura. Se guardiamo con attenzione alla Tab. 1, possiamo infatti trarre alcune indicazioni interessanti.
La prima cosa che balza all'occhio è naturalmente la relazione fra il costo orario “finale” e il valore di acquisto della macchina: questo rapporto si rende sempre più evidente a mano a mano che aumenta il grado di utilizzazione annua, per effetto della diminuzione dell'incidenza dei costi accessori.
In pratica le differenze fra i costi dei vari cantieri sono determinate essenzialmente dal prezzo di acquisto delle varie soluzioni: ma si tratta di costi orari, non di costo per unità di prodotto. All'allevatore interessa infatti il costo delle operazioni di alimentazione, calcolato rispetto a ciascun capo allevato, per potere effettuare un confronto più accurato fra le diverse opportunità offerte dal mercato.
Il lettore capirà che non è possibile analizzare con una tabella di calcolo generica il costo della meccanizzazione riferito a ciascun capo allevato, in quanto si tratta di una valutazione che deve essere fatta a livello aziendale, essendo troppi i parametri che incidono sui tempi effettivi di distribuzione della miscela: caratteristiche strutturali, capi allevati, lunghezza e conformazione delle corsie di alimentazione, distanze fra sili di conservazione del foraggio e dei mangimi, quantità di integratori, densità di capi per unità di lunghezza della corsia e chi più ne ha più ne metta.
Le considerazioni sul grado di utilizzazione annua delle macchine per uso zootecnico sono comuni a diversi tipi di attrezzature, fisse e mobili, in quanto sono tutte destinate a un uso quotidiano e per un tempo significativo nell'arco della giornata. Carro miscelatore, desilatore o molino per cereali richiedono infatti una o più ore di lavoro per ciascun ciclo di funzionamento.
In linea di principio, tuttavia, si può affermare che la scelta del mezzo più idoneo a ogni singola azienda può essere effettuata sulla base delle prestazioni e della riduzione dei tempi di lavoro per capo allevato, considerato che le differenze fra le varie soluzioni sono davvero minime e lasciano ampio spazio alla valutazione dei parametri tecnici.
Piuttosto diverse sono invece le condizioni d'uso degli elevatori telescopici, macchine che, dopo avere conosciuto un successo crescente nella prima fase della loro immissione sul mercato, sembrano essersi improvvisamente fermate. La battuta d'arresto ha avuto risvolti negativi anche sulle politiche commerciali degli stessi costruttori, con improvvise cancellazioni di macchine dai listini ufficiali.
SOLLEVATORI TELESCOPICI, PRODUTTIVITÀ IMBATTIBILE
Diciamo subito che si tratta di mezzi che – quando vengono usati per fare il loro mestiere – manifestano una produttività assolutamente imbattibile: il sistema di carico (benna o forca) montato su braccio telescopico, l'equilibrio del mezzo, la sterzatura polivalente (su uno solo o sui 2 assi, concorrente o parallela), la trasmissione idrostatica e la grande maneggevolezza anche in spazi ristretti non hanno rivali, specie se confrontata con una trattrice di tipo convenzionale. A parte i modelli più primitivi (e datati...), i caricatori attuali e comunque recenti si caratterizzano anche per avere alcune prestazioni simili a quelle di una trattrice (sono omologati come tali), con elevata capacità di traino, alta velocità nei trasferimenti stradali, presa di potenza e sollevatore idraulico.
Tutta questa tecnologia, naturalmente si paga: il costo di un movimentatore telescopico è maggiore di un buon terzo rispetto a quello di una trattrice con cambio idraulico e caricatore frontale, a parità di potenza. Ma questo non è un buon riferimento, in quanto si tratta di mezzi concepiti per svolgere attività completamente diverse. Né l'uno né l'altro è in grado di battere il concorrente al di fuori del suo campo specifico: un trattore col caricatore non riuscirà mai a competere validamente con un “telescopico” nel carico e nella movimentazione, dove invece il caricatore eccelle. Ma questo, benché possa fare la sua figura nel traino stradale (in pianura...), non sarà mai paragonabile a una vera trattrice nel traino pesante o nell'aratura.
L'elevato valore di acquisto di un caricatore telescopico lascia una traccia profonda nel calcolo dei costi orari, come si può verificare dalla Tab. 2, che raggiungono valori più vicini a quelli di una macchina operatrice complessa che a quelli di una trattrice di pari potenza. Quest'ultimo parametro ha peraltro un significato modesto per un caricatore, per il quale contano di più fattori come la portata dell'impianto idraulico, la geometria del sistema telaiobraccio e la maneggevolezza, legata al sistema di trazione e di sterzatura. Quanto detto spiega anche perché le potenze impegnate – fra macchine piccole, medie e grandi – siano estremamente vicine, oscillando intorno ai 100-120 cavalli, qualcuno di più o qualcuno di meno.
La grande produttività di questi mezzi ne costituisce, paradossalmente, anche uno dei fattori di debolezza: sono davvero poche le aziende nelle quali un caricatore telescopico riesce a totalizzare un numero di ore sufficiente a garantirne l'ammortamento. Se la polivalenza delle macchine attuali può consentire di estenderne l'uso anche al di fuori dell'aia, si tratta sempre di oggetti che dovrebbero raggiungere almeno le 400-500 ore di lavoro nell'arco dell'anno, per mantenere i costi sotto controllo.