Vinificare a basso impatto. Un concetto complesso, una questione delicata e spinosa che racchiude in sé più d’una problematica. In relazione alla crescente attenzione dell’opinione pubblica ai metodi cosiddetti naturali di produzione, vinificare a basso impatto non significa infatti soltanto consumare meno in termini di risorse, ma anche produrre vini che non contengano sostanze allergeniche (proteine) o additivi potenzialmente tossici (Dmdc e anidride solforosa).
SO2 che è finita suo magrado nell’occhio del ciclone in virtù del fatto di essere la prima sostanza a dover essere indicata obbligatoriamente in etichetta conquistando, agli occhi del consumatore, il triste primato di ingrediente “estraneo” nel vino. Un’avversione dimostrata anche dallo stretto legame tra vino bio e vino a basso tenore di solfiti. Due concetti apparentemente diversi, che vanno però a coincidere nella definizione del Reg. Ue 203/2012 che disciplina il vino biologico del vecchio continente (lo stesso - e anche di più - capita Oltreoceano). E il progetto di ricerca europeo Orwine, che ha fornito le basi scientifiche per la definizione del regolamento, era ancora più drastico riguardo alla possibile riduzione dei solfiti (ma poi hanno prevalso le richieste di moderazione espresse dai produttori del Nord Europa). Roberto Zironi, docente presso l’Università degli studi di Udine, è stato dal 2006 il coordinatore scientifico del progetto Orwine. Un vero anticipatore, visto che da allora il legame tra basso impatto e riduzione dei solfiti si è decisamente rafforzato.
Evitare il vuoto microbiologico
I metodi fisici e l’aggiunta di composti alternativi sono da anni le due vie più seguite da ricercatori e produttori al fine di evitare la dipendenza dai solfiti. A mettere però in discussione questi sforzi sono sempre stati i risultati relativi alla qualità organolettica dei vini ottenuti. Un problema risolto? «Sono tre i concetti cardine – puntualizza Zironi – per controllare il livello di solfiti nel vino senza rischi:
- evitare contaminazioni microbiche,
- ottimizzare le fermentazioni;
- garantire l’equilibrio ossido-riduttivo.
Con queste precauzioni è possibile, in molti casi, posticipare l’impiego di anidride solforosa fino alla fine delle fermentazioni».
In che modo? Raccogliendo uve sane, avendo cura dell’igiene di cantina, controllando il pH, ricorrendo a antiossidanti naturali, lavorando in riduzione o in iperossigenazione e, soprattutto, gestendo le fermentazioni attraverso l’utilizzo di lieviti selezionati da sfruttare specialmente in co-inoculo nella fase della malolattica, fornendo loro un’adeguata nutrizione azotata. «Se l’utilizzo di specie microbiologiche selezionate – spiega Zironi – garantisce già di per sé un migliore controllo sulla fermentazione in senso stretto, il ricorso al co-inoculo lieviti-batteri assicura il superamento di problemi legati al “vuoto microbiologico” che tipicamente si manifestano scegliendo le strade della malolattica spontanea e della malolattica sequenziale». D’altra parte, qualcuno potrebbe obiettare, i lieviti stessi non sono del tutto ininfluenti sul tenore di solfiti: è risaputo ormai da tempo, infatti, che ogni specie produce livelli più o meno consistenti di SO2 in modo del tutto naturale. A questo specifico problema, tuttavia, una soluzione adeguata è già stata trovata grazie alla diffusione commerciale di lieviti cosiddetti bassi produttori di solfiti e di composti solforati in generale.
Antiossidanti poco convincenti
«L’ostacolo maggiore alla totale eliminazione dei solfiti nella vinificazione low-input rimane quindi – mette in evidenza Zironi – l’individuazione di un valido sostituto dell’additivo nel vino finito». Ovvero la soluzione dell’ultimo dei tre punti cardine menzionati più sopra, ovvero l’equilibrio redox, che resta di difficile gestione senza il ricorso alla solforosa......
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