ll recente studio sull’applicazione delle politiche europee di riduzione degli agrofarmaci e dell’incremento delle superfici coltivate in biologico, condotto da un gruppo di ricercatori olandesi della Wageningen University & Research, prevede uno scenario che getta più ombre che luci sulle strategie green Farm to Fork e Biodiversity, tracciando ricadute sui rendimenti, sulla produzione e sui prezzi di mercato.
Secondo la ricerca sarebbero previsti cali di produzione intorno al 10%, un aumento dei prezzi dei prodotti agricoli di circa il 13% e un incremento delle importazioni da Paesi extra Ue causate dalla minor capacità produttiva europea.
I ricercatori olandesi hanno preso in esame colture perenni come mele, olive, agrumi e annuali come pomodoro, frumento, mais, soia e barbabietola da zucchero e hanno condotto lo studio su 25 aziende agricole in sette Paesi dell’Ue. L’europarlamentare sudtirolese Herbert Dorfmann, relatore a Bruxelles della strategia Farm to Fork, fa il punto su alcune contraddizioni presenti nello studio Wageningen e su limiti e prospettive del Green Deal.
Cosa pensa dello studio di impatto di Wageningen?
«Lo studio dell’Università olandese è uno dei tanti, ricordo anche quello del Joint Research Centre, che evidenzia che nel mettere in atto la strategia Farm to Fork non bisogna fare l’errore di dimenticare la sicurezza alimentare. L’altro punto critico riguarda la neutralità climatica, non possiamo dire adesso vogliamo la neutralità climatica e la raggiungiamo esportando le nostre emissioni verso altre parti del mondo, sarebbe poco serio. Certamente sotto questi aspetti lo studio Wageningen aiuta a riflettere. Ma non mi fido delle cifre, perché non tengono conto di un possibile sviluppo che ci sarà. Non critico Wageningen, perché è difficile quantificare queste possibilità. Ma come faccio oggi a dire tra cinque o dieci anni avrò ”x” nuovi prodotti, piante, ecc? Posso capire la preoccupazione, però noi speriamo che la riflessione sulla sostenibilità porti anche a degli sviluppi. Sono convinto che sarà così. A mio avviso, quindi questi studi sono troppo superficiali. Di tutta la strategia Farm to Fork non si possono prendere solo due o tre elementi senza guardarla nel suo complesso. Non si può calcolare cosa succede se diminuisco l’utilizzo di fertilizzanti e di antibiotici e non prendere in considerazione gli altri effetti della strategia».
Come considera le stime fatte dai ricercatori olandesi su cali produttivi e aumento dei prezzi?
«Sinceramente alcuni calcoli elaborati nello studio a me non tornano. Dire che se produrremo meno latte l’agricoltore guadagnerà di meno non è necessariamente vero. Potrebbe anche guadagnare di più. Perché su alcuni prodotti abbiamo una sovrapproduzione sul mercato, quindi non è detto che la diminuzione di prodotto porti a una consequenziale diminuzione di prezzo».
Tornando ai rischi previsti dallo studio in merito alla riduzione dei prodotti fitosanitari, lei ha più volte sottolineato che serve un approccio più bilanciato della strategia su questo punto. La riduzione del 50% dei prodotti fitosanitari la considera quindi un obiettivo rischioso che, come di fatto prospettato da Wageningen, potrebbe avere un impatto significativo sui livelli di rendimento produttivo?
«A volte una pressione legislativa su degli obiettivi porta a sviluppare delle alternative e a mettere in moto nuovi stimoli per la ricerca. La riduzione degli insetticidi è certamente positiva, ma gli agricoltori hanno bisogno contemporaneamente di avere a disposizione altre soluzioni altrettanto efficaci. Bisogna dunque agire urgentemente sulle nuove tecnologie di miglioramento genetico, come le Nbt. Dobbiamo lavorare sullo sviluppo, riconoscimento e registrazione di nuove molecole meno impattanti e dare quindi agli agricoltori nuovi strumenti per la difesa. Non si può dire ti tolgo lo strumento e non ti do un’altra possibilità concreta per raggiungere gli obiettivi. La spinta dunque verso un’agricoltura più sostenibile con il passaggio al biologico di tante aziende deve andare di pari passo con lo sviluppo di molecole meno impattanti e nuove tecnologie».
Il biologico quindi non è in contrapposizione con le biotecnologie?
«Assolutamente no. Un’agricoltura sostenibile va certamente sostenuta, ma deve essere chiaro che nessun agricoltore, anche in agricoltura convenzionale, ha voglia di spargere veleni sui propri terreni e produrre cibo non sano. Questo rientra tra gli obiettivi primari degli imprenditori agricoli. Per mettere in campo le biotecnologie serve il nostro intervento a Bruxelles. Sono fiducioso. La Commissione europea ha capito su cosa deve agire. Ha inoltre proposto poche settimane fa un nuovo regolamento su come procedere per la registrazione di pesticidi meno impattanti, con un basso profilo di rischio. Le cose stanno andando avanti, ed è giusto che sia così. Dire bisogna diminuire l’utilizzo punto e basta non porta da nessuna parte. Negli ultimi anni abbiamo abbandonato l’investimento nella ricerca agricola, dobbiamo invece tornare ad investire».
Secondo lo studio, tra le colture su cui impatterebbe di più il Green Deal troviamo le mele, con cali produttivi previsti superiori al 20% e prezzi in riduzione del 15%. Il Trentino, sua terra d’origine, è la patria della melicoltura italiana. Pensa che sarà veramente un colpo così duro per il settore?
«Non lancerei pensieri così pessimisti. Prima di tutto, anche nelle annate in cui ci sono meno mele sul mercato per i melicoltori ci può essere un buon ritorno economico. Non è vero che gli agricoltori guadagnano di più quando si produce di più. La melicoltura italiana, e soprattutto la melicoltura del Trentino-Alto Adige, rispetto a molte regioni europee, ha un’esperienza molto lunga con i sistemi di lotta integrata. La Farm To Fork è una strategia, quando saremo nella fase di attuazione spero che ci sarà buon senso. I nostri melicoltori del Trentino parlano di sostenibilità da molti anni, ancor prima che nascesse la strategia Farm To Fork, quindi su questo farei meno allarmismo».
Può spiegare qual è il punto più critico di tutta la strategia green europea?
«Il primo errore della strategia Farm To Fork è che mira alla sostenibilità senza guardare alla produzione. Non tanti anni fa abbiamo discusso molto a livello europeo di carbon footprint e di sustainable diversification: questo secondo me è il concetto giusto. Dire sì, dobbiamo andare avanti a produrre anche di più rispetto a oggi perché aumenterà il fabbisogno di questo continente e di tutto il pianeta ma dobbiamo farlo in maniera sostenibile. L’imperativo è trovare delle soluzioni per coniugare sostenibilità con intensità produttiva, e in questo secondo me la strategia Farm To Fork è del tutto superficiale e poco scientifica. Dobbiamo tornare su questo punto nel dibattito europeo, se riusciamo ad accordare queste due necessità otterremo un vero guadagno per l’agricoltura, e non solo. Perché, come ho detto prima, l’agricoltore è interessato alla sostenibilità ambientale, però chiaramente deve tenere conto anche della sostenibilità economica, deve produrre e raggiungere un reddito adeguato».