Una delle principali critiche avanzate contro la bioagricoltura è quella della minore resa produttiva per ettaro rispetto al convenzionale. Una valutazione che, in realtà, si riferisce alla resa assoluta, prescindendo dalla differenza di input, e che per essere completa merita attente analisi che confrontino la complessità di diversi fattori.
Un nuovo studio
È proprio di questi giorni l’uscita di uno studio autorevole che analizza i risultati ottenuti in una sperimentazione statunitense di lungo termine, in cui emerge la competitività del biologico non solo in termini ambientali ed energetici, come già emerso in altri studi, ma anche in termini di rese produttive.
Il Farming System Trial (FST) è stato avviato dal Rodale Institut statunitense nel 1981 e ha mirato anche a incrementare la produttività per ettaro del sistema bio, sulle piantagioni sperimentali di mais, soia, avena e grano, le colture che costituiscono la prima produzione agricola nazionale.
Tre metodi a confronto
Tre metodi colturali sono stati posti a confronto in tre tesi su ampie parcelle sperimentali. La prima delle tre è quella del metodo convenzionale, con i suoi input secondo lo standard colturale Usa validato dalla Università statale della Pennsylvania. Poiché la ricerca analizzava i metodi colturali, ha utilizzato per questa tesi sementi Ogm di ultima generazione, commercializzate come più resistenti e produttive, essendo ormai le coltivazioni Ogm di queste tre piante le più comunemente diffuse nel convenzionale in Usa.
La seconda tesi era biologica, basata soprattutto su rotazioni e sovesci di leguminose, come largamente applicato nel biologico nordamericano.
La terza era biologica con l’uso di letame compostato. A questo proposito bisogna tenere presente che la pratica scientifica del compostaggio e dell’humificazione furono introdotti in Usa da Ehrenfried Pfeiffer, il chimico allievo di Rudolf Steiner e primo sperimentatore della biodinamica dal 1922, docente universitario di scienza della nutrizione, che per i suoi risultati ricevette la laurea honoris causa in medicina in Pennsylvania.
Sulla scorta delle ricerche di Pfeiffer, l’uso obbligatorio di letame compostato è divenuto uno dei capisaldi che differenzia il biodinamico dal biologico. Pfeiffer diede l’impulso per le prime applicazioni dell’agricoltura biologica in area anglosassone. Il padre del movimento biologico inglese, Lord Northbourne, portò Pfeiffer in Inghilterra e, ispirato dal libro di questi Biodynamic farming and gardening del 1938, fondò l’Organic farming and gardening Association nel 1940, istituzione che influenzò la nascita del biologico americano anni dopo. Già nel 1940 Jerome Rodale richiamò Pfeiffer in Usa e sperimentò con lui le prime pratiche organiche con cui fu avviato quello che oggi è il Rodale Institut, il più autorevole centro sperimentale sulla bioagricoltura nel continente americano.
Le performance del letame compostato
Proprio la tesi a base di letame compostato è quella che ha mostrato le migliori performance per molti dei parametri in esame, mostrando di essere competitiva rispetto agli Ogm di ultima generazione.
La seconda tesi ha invece evidenziato alcuni limiti. Occorre rilevare, infatti, che l’uso monocolturale di leguminose per i sovesci, adottato nella bioagricoltura, è sconsigliato in biodinamica, dove si applicano sovesci multivarietali con percentuali ridotte di leguminose e lasciati in fioritura per contenere azoto e massa organica. Questa applicazione deriva da studi sulla fertilità ormai consolidati, avviati fin dai primi anni nei centri biodinamici di ricerca, che hanno mostrato come, a differenza della concimazione sintetica che agisce direttamente sulla coltura, un ricco sovescio di leguminose non porta solo un incremento di azoto, ma incrementa la presenza microbica, con un repentino aumento del metabolismo nel suolo. Cessata poi la disponibilità della sostanza fresca, l’aumentata attività microbica porta a un’erosione della sostanza organica presente nel suolo. Tale effetto, che avviene in assenza di un apporto di humus da compost, ha rivelato i suoi limiti anche nella ricerca in corso, confermando indirettamente la sensatezza della pratica del compostaggio e dei sovesci a basso e prolungato input impartiti in biodinamica.
Le lavorazioni del suolo
Un’altra variabile da considerare, introdotta nel Farming System Trial (Fst), è quella delle lavorazioni del suolo. Dopo aver messo a confronto per diversi anni lavorazioni piene e lavorazioni ridotte, si è arrivati nel 2008 a poter eliminare del tutto le lavorazioni nella tesi convenzionale, con gli erbicidi, e a sistemi di minima lavorazione nelle due biologiche per contenere le infestanti. Nonostante il perdurare di lavorazioni a scopo di diserbo, assenti nelle parcelle del convenzionale, lo stato del suolo della terza tesi si è incrementato anche negli anni dal 2008. Fst ha anche affinato l’applicazione di coperture verdi a protezione dei suoli e oggi in Pennsylvania la percentuale di aziende che applicano la tecnica è ormai al 25%.
La produttività
Tra i tanti aspetti dello studio, quello della produttività delle parcelle esaminate è quello più interessante. Gli studi di agroecologia, tra i quali quelli di Miguel Altieri e della Fao, avevano già evidenziato il potenziale produttivo della bioagricoltura. Da tempo gli analisti invitano ad avviare una vasta campagna di ricerca sulla bioagricoltura a partire dalle conoscenze raggiunte in biologico e biodinamico. La sproporzione di studi e fondi impiegati tra sistema convenzionale e bio è tale da non permettere oggi di comparare la produttività potenziale dei due sistemi, poiché nel primo caso la ricerca ha disposto di capitali enormi, mentre nel secondo caso le ricerche ha ancora ampi margini di incremento. Il progetto a lungo termine del Rodale nasce proprio per abbattere le barriere all’adozione dell’agricoltura biologica da parte degli agricoltori statunitensi. La ricerca ha mostrato chiaramente che, sotto le specifiche conduzioni colturali esaminate, è possibile raffinare le pratiche fino a ottenere rese produttive pari a quelle del convenzionale.
Una sfida da vincere
Se non vogliono perdere spazi di mercato con gli Usa nei prossimi anni, l’Ue e soprattutto l’Italia, paese che detiene il primato europeo per percentuale di ettari di Sau bio, dovranno avviare progetti organici di ricerca a partire dal coinvolgimento delle organizzazioni storiche del biologico e del biodinamico che detengono il patrimonio di decenni di esperienza applicata.
Bisogna tenere presente che già nel 2015 gli Usa hanno lanciato il Vegetable System Trial per conquistare un aumento dei valori nutrizionali degli alimenti insieme a una resilienza dei suoli agricoli.
Tra gli impegni Usa va anche citato il lavoro per i sistemi alimentari sostenibili dell’Università statale dell’Arizona seguito da Nadia El-Hage Scialabba. Per raggiungere e soprattutto mantenere e incrementare il 25% di suoli bio e stare sul mercato, l’Italia dovrà quindi lanciare subito un serio programma agroecologico a lungo termine di ricerca partecipata, formazione degli operatori e informazione al pubblico, che sia compartecipato e diffuso nelle ben diverse condizioni agricole italiane.
Se infatti, negli Usa, l’uniformità colturale permette di ottenere risultati univoci e rappresentativi, nel nostro Paese occorre impostare una campagna organica per la grande ricchezza di attori storici, competenze, territori e suoli e per l’inuguagliabile agribiodiversità delle colture. Davanti alla possibilità di una affermazione di posizione in un mercato del biologico e della salute in crescita, l’Italia deve accuratamente evitare il rischio della dispersione dei fondi Ue, investendoli in ricerche, istruzioni e campagne separate dalla realtà produttiva e dalle reali competenze in campo nel Paese.