Secondo stime attendibili, che probabilmente non tengono conto dei piccoli accumuli sparsi qua e là, le gomme usate che stazionano sul territorio nazionale raggiungono il peso di 2 milioni di tonnellate. Di queste, solo una minima parte derivano dal settore agricolo: si stima siano 50-60mila tonnellate, appena qualche punto percentuale.
I motivi della bassa incidenza dell’agricoltura nella produzione di questo tipo di rifiuti sono da ricercarsi sia nell’elevata durata delle coperture (qualche migliaio di ore) sia nella scarsa utilizzazione delle macchine da parte della maggioranza degli agricoltori: nella media nazionale non si arriva a 100 ore all’anno. Molte trattrici, e ancora di più le macchine operatrici, arrivano al termine della loro vita con le gomme originali; solo le aziende agricole più grandi – e ovviamente i contoterzisti – si trovano nella condizione di sostituire le gomme per usura. Più frequente è semmai il cambio per cedimento della carcassa, specie per le applicazioni ove si registrano carichi elevati e forti sollecitazioni; a tal proposito si presume che l’estate appena conclusa, con il suo lungo periodo di siccità, darà un bel contributo alla produzione di pneumatici usati. Solo una parte di questi pneumatici resta dal gommista: quelli sostituiti per usura dei ramponi di aderenza, e quindi ancora potenzialmente utilizzabili, seppure con limitazioni, spesso vengono tenuti in azienda per eventuali emergenze.
Esattamente come avviene per gli autoveicoli, dopo un po’ di tempo può capitare che una misura di gomme, che magari andava per la maggiore alla sua epoca, venga rapidamente abbandonata. In tal caso avere una gomma di ricambio, anche se un po’ consumata, è importante per una sostituzione estemporanea, tenuto conto dell’allungamento dei tempi di consegna che si registra durante la stagione estiva. Bisogna chiarire che uno pneumatico di riserva, anche se consumato, è considerato come un pezzo di ricambio e non un rifiuto: per essere tale l’oggetto deve essere realmente inutilizzabile – per esempio, con la carcassa sfondata – oppure essere stato deliberatamente scartato dal proprietario. Una gomma abbandonata in un campo, esposta agli agenti atmosferici e coperta d’erba somiglia troppo a un rifiuto per poter dimostrare che è ancora utilizzabile; se invece è tenuta al coperto, in posizione riparata dal sole e lontana da altre fonti di raggi ultravioletti (come le saldatrici ad arco), allora è credibile l’affermazione che si tratti di una parte di ricambio.
Lo smaltimento
Nel caso in cui la gomma sia effettivamente un rifiuto e si sia finalmente arrivati alla decisione di liberarsene, la questione non è di poco conto: lo smaltimento è tuttora piuttosto costoso e deve essere fatto da imprese specializzate. Il trasporto, in particolare, è soggetto a limitazioni: ogni produttore di rifiuti speciali può infatti trasportare al centro di smaltimento i propri rifiuti, a condizione che sia iscritto all’apposito Albo nazionale; a tal fine esiste una procedura di iscrizione semplificata, ai sensi dell’art. 212 comma 8 del Testo unico ambientale (decreto legislativo n. 152 del 2006).
Bisogna però osservare che le gomme usate non sempre vengono autorizzate al trasporto per conto proprio, a meno che il produttore non possa dimostrare, tramite la propria iscrizione alla Camera di Commercio, di svolgere attività di manutenzione del parco macchine. In alternativa è sempre possibile che il centro di smaltimento si incarichi anche del ritiro, operazione resa comunque complessa dal peso elevato della copertura e tale da richiedere un mezzo specifico (autocarro con gru e benna mordente). Può essere interessante sapere che fine facciano le gomme usate: in effetti per molti anni la logica era quella della discarica, spesso a cielo aperto, nella quale migliaia di tonnellate di pneumatici venivano ammucchiati fino a costituire cumuli di dimensioni impressionanti. Come si può immaginare, lo stoccaggio a tempo indeterminato non è una soluzione accettabile, né sul piano ambientale né su quello economico. In primo luogo, il pericolo di incendio è altissimo: basta che poche decine di tonnellate di gomme prendano fuoco e non si sono pompieri che tengano, nemmeno con gli aerei antincendio; a parte il calore sviluppato, la nuvola di fumo altamente tossico che si sprigiona dal rogo avrebbe ricadute ambientali gravissime. Ma sono soprattutto i motivi economici a sconsigliare lo stoccaggio puro e semplice delle gomme: al di là di ammortamenti e manodopera (poca), gran parte dei costi di produzione di una copertura sono determinati dalle materie prime, come acciai speciali, fibre tessili ad alta tecnologia, gomma e nerofumo, derivati dal petrolio. Mentre si stanno studiando materiali diversi per sostituire la gomma sintetica, derivanti da fonti rinnovabili e di costo accettabile, la tecnologia offre oggi diverse soluzioni per il recupero delle gomme usate, dirette al riutilizzo delle materie prime. Tutto parte da un dato di fatto: il processo di vulcanizzazione, durante il quale la gomma base (naturale o sintetica) viene stabilizzata dall’aggiunta di zolfo, è un processo difficilmente reversibile: questo significa che lo zolfo si lega ai vari polimeri che chiamiamo comunemente “gomma” trasformandoli permanentemente e impedendo, per esempio, di rifonderli per creare nuovi pneumatici.
Solo di recente è stato sviluppato un processo di demolizione della copertura che, sostituendosi alla tradizionale trinciatura a coltelli, applica al materiale una sollecitazione meccanica talmente elevata da consentire il recupero di un buon 20-30% della gomma base, che può effettivamente essere reimpiegata come tale. Questo processo, ancora in fase poco più che sperimentale, usa getti d’acqua ad altissima pressione (da 2.000 bar in su!) che scarnificano gli pneumatici fino a separare la carcassa metallica, le fibre tessili e la gomma vera e propria, parte della quale può essere nuovamente vulcanizzata.
Senza arrivare a questi livelli, oggi lo smaltimento degli pneumatici fuori uso (noti con la sigla Pfu) si fonda sulla trinciatura con apposite frese a coltelli, che dà luogo a tre prodotti principali: polverino di gomma, granulato di gomma e cavi d’acciaio. Il primo ha trovato un’applicazione molto interessante, che in qualche modo chiude il cerchio legato alla circolazione dei veicoli: mescolato all’asfalto nella proporzione del 7-8%, aumenta moltissimo l’aderenza delle gomme dei veicoli che vi transitano sopra, come ben sanno gli appassionati di motori (nei circuiti dove si deve gareggiare, le prove libere servono anche a depositare sul manto stradale uno strato di gomma che aumenta l’aderenza e quindi le prestazioni).
Il granulato trova invece larga applicazione sia nella produzione di conglomerati isolanti – impiegati, ad esempio, per parchi giochi o per le cuccette per le lattifere – sia per la realizzazione di pannelli per edilizia e calcestruzzi leggeri; i cavi e frammenti metallici infine tornano in fonderia per la produzione di acciaio.
Il pareggio dei costi
Nulla va buttato e nulla rimane: benché il valore commerciale dei sottoprodotti ottenuti sia ancora inferiore al costo della frantumazione, siamo sulla buona strada per arrivare al pareggio: non solo per l’affinamento del processo di recupero, ma anche per il corrispondente aumento del valore delle materie prime. Di certo, se si riuscissero ad annullare gli effetti della vulcanizzazione su percentuali significative della gomma base, il valore della materia prima sarebbe assai maggiore e il pareggio dei costi sarebbe a portata di mano. Perché ci preoccupiamo proprio noi del pareggio dei costi di smaltimento degli pneumatici usati, e non solo quelli che lo fanno professionalmente? Il motivo è ovvio: loro ci lavorano tutti i giorni, siamo d’accordo, ma siamo noi – in quanto utilizzatori di pneumatici – a pagare il servizio. Se si escludono alcuni operatori indipendenti, la parte preponderante della filiera è gestita da un consorzio (Ecopneus) che riunisce i principali produttori di pneumatici, gli stessi costruttori di auto e motoveicoli e le imprese che effettuano lo smaltimento delle gomme (attualmente conta quasi sessanta soci). Il ministero dell’Ambiente ha emanato il regolamento per lo smaltimento delle gomme usate, già sancito dal testo unico ambientale, con il decreto ministeriale n. 82 dell’11 aprile 2012, anche se i contenuti di massima erano già stati fissati da tempo. Il contributo fissato dal consorzio Ecopneus viene aggiornato annualmente sulla base del bilancio finale del costo di smaltimento a livello nazionale, ed è soggetto a diverse variabili: potrebbe diminuire, per esempio, in funzione del miglioramento delle tecnologie impiegate dalle imprese specializzate e del loro modo di organizzare i trasporti; potrebbe invece aumentare se il ministero dell’Ambiente decidesse di aumentare la quota di pneumatici fuori uso lavorati nell’anno.
La proposta Unima
La legge stabilisce che deve essere recuperato, con le modalità descritte, un quantitativo annuo – in peso – pari a quello degli pneumatici nuovi immessi sul mercato nello stesso anno. Ma già nel 2011 questo gruppo di aziende è riuscito a lavorare ben 6.000 tonnellate in più, che vanno a erodere parte di quei 2 milioni di tonnellate di cui s’è detto. È anzi auspicabile che quest’eccedenza possa aumentare ancora, in modo che l’immensa quantità di Pfu ancora in giro, accumulatasi nel tempo, possa effettivamente diminuire.
Come si può verificare dalla tab. 1, il valore unitario dei contributi per gli pneumatici nuovi può sembrare elevato, ma incide in misura trascurabile (2-3%) sul valore commerciale della copertura. Questo vale soprattutto per i tipi e le misure destinate a un uso professionale, mentre l’incidenza sul prezzo di vendita delle gomme destinate a equipaggiare un’utilitaria può superare il 5%. È ovvio che la distinzione per classi può creare qualche ingiustizia: la copertura da 41 kg costa quasi il doppio di quella da 40, raddoppiando di conseguenza l’incidenza percentuale sul prezzo del nuovo; forse sarebbe stato più logico – ma qui entriamo nei compiti del Ministero, che ha stabilito le classi di peso – istituire una tariffa al kg, anche se questo avrebbe obbligato i costruttori di pneumatici a dichiararne il peso, cosa peraltro non prevista dalle norme internazionali sulla marcatura degli pneumatici.
Come detto precedentemente, una parte notevole delle coperture vendute in Italia va a equipaggiare i veicoli nuovi, veicoli che in taluni casi finiscono in demolizione senza mai avere cambiato pneumatici: di qui l’istituzione di un altro contributo ambientale che andrà a coprire i costi dello smaltimento delle gomme montate sul veicolo nuovo, una volta che questo arrivi alla fine della sua vita. Si tratta anche qui di una vera e propria tassa, la cui incidenza sul prezzo di acquisto del veicolo è tuttavia piuttosto modesta: si va da un minimo di 1,50 € (sul veicolo, e non un tanto per ruota) per i motoveicoli, fino a un massimo di 121,15 € per le macchine agricole e industriali equipaggiate con pneumatici di peso unitario superiore ai 200 chilogrammi.
Nulla da dire se si acquista un trattore e ci si deve pagare un contributo ambientale di un centinaio di euro: in fondo il valore del bene è di gran lunga superiore. Ma se la macchina viene consegnata con una misura di gomme diversa da quella richiesta, ecco che si realizza un’ingiustizia: in questo caso bisogna infatti pagare il contributo ambientale sia sulla macchina nuova, sia su ognuna delle gomme che verranno sostituite. Allo scopo di rimuovere questa incongruenza, anche per una questione di principio, Unima si è da tempo attivata nei confronti del ministero dell’Ambiente e delle altre organizzazioni imprenditoriali coinvolte, riuscendo a riscuotere un ampio consenso che dovrebbe portare, in tempi ancora da definire, alla modifica di una norma palesemente ingiusta.