I suoli agricoli hanno fame di sostanza organica e fosforo. L'utilizzo agronomico dei fanghi di depurazione delle acque reflue è una valida alternativa strategica ai sistemi di fertilizzazione convenzionali e una pratica preferibile in termini ambientali e di economia circolare. L'incertezza, dovuta al blocco della revisione normativa dell'antiquato D. Lgs 99/92, sta creando una situazione di stallo operativo che incide sulle dinamiche di mercato, sulla dipendenza dalle importazioni di materie prime critiche, sulla sicurezza alimentare e sulla sostenibilità operativa.
Al convegno promosso dall'Accademia dei Georgofili di Firenze e “Chimica verde Bionet”, la problematica dei fanghi in agricoltura è stata sviscerata in ogni sua sfaccettatura. Il risultato finale è stato l'appello che auspica una chiarezza e pertinenza normativa accompagnata da un metodo analitico univoco e valido a livello nazionale.
L'obiettivo di tutti gli addetti ai lavori è quello di svolgere in sicurezza questo tipo di attività agricola sui generis, legata però a doppio filo con il mondo complicato dello smaltimento e recupero dei rifiuti.
In Italia si producono 3,2 milioni di tonnellate di fanghi biologici di depurazione e solo il 54% viene destinato al trattamento, condizionamento o al recupero, perdendo una grande risorsa di sostanza organica di qualità ricca di carbonio organico, azoto, fosforo e altri microelementi.
La qualità del suolo è la risorsa primaria per fare agricoltura da reddito in modo sostenibile e duraturo. Quindi, è indispensabile che venga preservata sempre la salute generale evitando contaminazioni, accumuli o pericoli in modo da garantire la sicurezza del sistema suolo-pianta-uomo e interazioni con l'ambiente circostante. Certo è che l'atteggiamento è ambiguo: si tollerano i residui inquinanti dei prodotti chimici che invadono l'agricoltura, mentre per i fanghi di depurazione si creano tabelle di valori limite eccessivamente severe e non competenti. Tra tutti spicca la forma chimica dei metalli pesanti che è calcolata sul totale e non su quella effettivamente mobile sul complesso di scambio e poi soggetta all'assunzione da parte della pianta. Ma questa è solo accademia.
Per ottemperare a questo bisogno primario è necessario agire sul materiale di partenza e sui processi di depurazione delle acque reflue, in modo da ottenere un fango il più sicuro possibile e stabilizzato.
Regole da chiarire
La questione principale è chiarire definitivamente e dipanare la matassa di un quadro normativo intricato e contraddittorio ma, soprattutto, non adatto a fornire quegli strumenti tecnici e operativi che questo settore necessita ormai da troppo tempo. La norma nazionale (D.Lgs 99/92) è superata e claudicante in molti punti specie quello dei valori analitici dei fanghi che non sono supportati da un valida base scientifica univoca.
Alcune Regioni hanno emanato norme locali spesso discutibili che tendono più a scoraggiare gli utenti che a proteggere un comparto che vive di diffidenze e luoghi comuni difficile da sradicare. In certi casi, perfino i Comuni hanno osato emanare dei regolamenti tecnici che poi sono stati annullati dagli organi preposti. Spesso le aziende specializzate nel recupero dei fanghi di depurazione in agricoltura devono assumere dei legali per inoltrare ricorsi al Tar, e vincerli, per l'assurdità delle autorizzazioni rilasciate (Determinazioni) con perdite di tempo e risorse.
Durante il convegno, è stato ribadito più volte che la competenza a legiferare può essere solamente un compito dello Stato. Talia Tellini, direttrice di Utilitalia, ha dichiarato che «oltre l'80% dei fanghi di depurazione in Italia sono almeno di buona qualità e hanno i requisiti per l'utilizzo in agricoltura in sicurezza evitando il trasporto in discarica che è sempre un harakiri».
Terreni degradati da ripristinare
L'Osservatorio europeo per il suolo parla chiaro: il 47% dei terreni italiani è gravemente compromesso, vuoi per l'erosione (22%), per carenza di carbonio organico (19%), per la forte pressione dei fertilizzanti di sintesi, per i residui tossici dei trattamenti e per le tante pratiche agronomiche spesso scellerate e inutili.
Dovremmo imparare dai giapponesi che sono corsi ai ripari e hanno dirottato al recupero oltre il 50% dei fanghi di depurazione prodotti con una pianificazione che prevede pure numerosi incentivi economici e agevolazioni per il settore. Per l'Italia sarebbe fanta-agricoltura.
Comunque, sul suolo nazionale esistono molte realtà virtuose che puntano sul trattamento dei fanghi mediante apparecchiature e impianti brevettati ad hoc che mirano a trasformare il fango da rifiuto a prodotto.
L'aspetto chiave è l’End of Waste (EoW, “Cessazione della qualifica di rifiuto”), che indica il risultato di un processo di recupero eseguito su un rifiuto che, al termine del trattamento, perde la qualifica di rifiuto per acquisire quella di prodotto (art. 184 ter del D.Lgs. 152/2006 e ss.mm.ii.) .
A illustrare i loro progetti, erano presenti al convegno alcune realtà come: Agrosistemi per Hera con il “Biosolfato” o Gesso di defecazione , la Carborem con la conversione Htc idro termica, il trattamento dei fanghi da bacini idrici della Decomar Spa e il “Pellicino integrato” della Cuoiodepur Spa.










