Biodiversità, sostenibilità, fertilità del suolo, nuovi modelli di consumo, sono alcune delle tematiche affrontate dalla presidente di Slow Food Italia Barbara Nappini, che ritiene «non più rimandabile una decisa conversione ecologica delle filiere».
Biodiversità e agricoltura, binomio imprescindibile?
Siamo convinti che non possa esistere una reale sostenibilità agricola senza biodiversità, alla quale si legano la fertilità del suolo, la gestione della risorsa idrica e l’esistenza stessa delle comunità umane. In Italia abbiamo circa 40mila aziende agricole impegnate nel custodire semi o piante a rischio di estinzione (pensiamo ai nostri presìdi e all’Arca del Gusto Slow Food) e la più vasta rete di aziende agricole e mercati di vendita di prossimità dove acquistare prodotti alimentari locali. Esperienze che generano ricadute positive dirette sui territori di produzione, come “sistemi locali del cibo” nei quali tutti gli attori co-partecipano e contribuiscono al raggiungimento di un obiettivo comune. La produzione alimentare è una questione storica, identitaria, culturale, legata alle economie e ai territori.
Che significato assume oggi l’agricoltura bio rigenerativa?
È un’agricoltura di qualità che si prende cura del futuro a partire dal presente. È anche il migliore antidoto all’abbandono delle terre agricole perché caratterizzata dai principali indicatori socio-economici di successo: maggiore istruzione, minore età, maggiore diversificazione aziendale e valore aggiunto delle produzioni, come confermano dati EuroStat. Oggi non di rado sono proprio i giovani istruiti, che hanno anche fatto esperienze all’estero, che decidono di costruire per sé stessi un futuro in agricoltura: con grande sensibilità ambientale, sono i migliori interpreti della sintesi tra saperi tradizionali e innovazione, praticano un’agricoltura ad alto input di competenze e bassi input fossili, in grado anche di comunicare efficacemente la loro attività.
Produrre di più con meno input preservando la qualità: una sfida enorme. Come fare?
La risposta è la tutela della biodiversità e un deciso e coraggioso percorso verso l’agroecologia: pratiche agronomiche che valorizzano le rotazioni, le consociazioni positive, la tutela delle aree marginali, che tengono insieme innovazione e saperi tradizionali, che riescono a rigenerare la fertilità del suolo e promuovere la biodiversità.
Queste scelte comportano un minor impatto ambientale che vanno anche a beneficio del cambiamento climatico; un impatto economico minore in termini di spesa ma anche di risparmio ed efficientamento nell'utilizzo delle risorse; un impatto sociale positivo se rispettati i principi base della sovranità alimentare, i diritti dei lavoratori agricoli, specialmente se in condizioni di svantaggio: migranti, donne, piccoli produttori e giovani.
Che supporto possono dare le Tea all’agricoltura sostenibile del futuro?
Non riteniamo che nelle nuove tecnologie genetiche si trovino le risposte alle sfide attuali. C’è un tema di fondo critico e centrale: l’accessibilità. Spesso le innovazioni tecnologiche, biotecnologiche e industriali, richiedono investimenti importanti che escludono gran parte delle aziende di piccola e media scala.
Come considera gli obiettivi di sostenibilità dell’Unione europea?
Positivamente ma non sufficienti. Stiamo vivendo un’urgenza. La produzione di cibo ha un’elevata impronta ambientale, perciò l’intera filiera produttiva agroalimentare richiede una revisione in ottica di efficientamento delle risorse. Si deve fare di più.
E in merito all’architettura verde della nuova Pac? Le novità sugli eco-schemi e la condizionalità rafforzata?
Rispetto alla cornice di partenza, pensiamo al Green Deal, alla Farm to fork e alla Strategia per la biodiversità, avremmo auspicato un’applicazione più coraggiosa di certe indicazioni che andavano inequivocabilmente verso un’agricoltura rigenerativa, tutela della biodiversità e degli ecosistemi. In realtà poi si è lasciato ampio spazio di manovra ai paesi che hanno proposto piani attuativi depotenziati. Siamo a favore del rafforzamento delle regole della condizionalità, a partire da quella sociale, e dall’impostazione degli eco-schemi che devono prevedere impegni precisi per una drastica riduzione di fertilizzanti, pesticidi, antibiotici. Ma riteniamo necessario, per esempio, modificare l’eco-schema sulla zootecnia, che deve prevedere misure per ridurre densità e numero di capi nelle aree in cui è maggiormente praticata la zootecnia intensiva, aiutando fortemente invece gli allevatori ovicaprini, anche impostando un limite minimo di autosufficienza nella produzione di foraggi per contrastare l’eccessiva dipendenza da importazioni di mangimi. Oltre a questo, riteniamo cruciale rafforzare la formazione per gli agricoltori, in questa prospettiva è necessario un rapporto assiduo con le Università e gli Enti di ricerca a livello nazionale e regionale.
Qual è l’importanza dei prati stabili?
Per prato stabile si intende un’area di vegetazione prativa spontanea ricca di biodiversità (da poche decine fino a un centinaio di essenze botaniche secondo le altitudini e i territori), non seminata o arata ma gestita dall’uomo con sfalci periodici finalizzati a produrre fieni oppure pascolata dal bestiame. La perdita di queste aree è legata all’abbandono delle terre alte (montagna e alta collina) seguente all’industrializzazione del Paese.
Il prato stabile è un valore da preservare e ripristinare laddove è stato degradato o abbandonato, unitamente al pascolo del bestiame ogni volta che il clima lo consente, perché: fornisce derivati (formaggi, latticini e anche carne) di qualità elevata da un punto di vista organolettico e nutrizionale; preserva biodiversità vegetale e animale, aiutando la sopravvivenza di insetti impollinatori e migliorando la produzione – in termini di quantità e di qualità del miele; stocca carbonio nel suolo (i pascoli sono infatti ecosistemi in grado di trasferire la CO2 dell’atmosfera al suolo e alle radici); mantiene l’equilibrio idrogeologico dei territori (gli ambienti naturali lasciati a loro stessi aumentano gli effetti catastrofici dei cambiamenti climatici). Inoltre garantisce un benessere maggiore agli animali; offre produzioni casearie di eccellenza (ben 27 disciplinari caseari Dop italiani riguardano produzioni delle terre alte) e opportunità di sviluppo turistico per i territori più marginali.
L’orientamento dei consumi sta cambiando, c’è più attenzione a temi quali ambientalismo e salutismo. Quanto è importante innescare progetti concreti di cultura alimentare?
Da vent’anni lavoriamo con le scuole tramite il progetto di orticoltura chiamato “Orto in Condotta” che ha coinvolto 500 scuole italiane e ha formato più di mille insegnanti. Le nuove generazioni sono evidentemente molto sensibili ai temi ambientali, hanno bisogno di strumenti di consapevolezza per compiere le scelte migliori nel presente per salvaguardare il futuro. Non dimentichiamo poi la grande opportunità offerta dalla ristorazione scolastica, per noi a tutti gli effetti luogo didattico, dove si può vivere un’esperienza conviviale ed educativa condivisa, con cibo stagionale e locale, in un sistema di economia circolare in grado di generare ricadute positive territoriali in termini di salute, ambientali, culturali, sociali ed economici.
Si registra una diminuzione delle vendite dei cibi bio, conseguenza del calo del potere di acquisto dei consumatori. Come risollevare il settore?
In Italia viviamo ancora questo paradosso per cui chi fa biologico paga per farsi certificare, quindi, all’atto pratico, è svantaggiato rispetto a chi fa convenzionale: questo rappresenta un’anomalia di partenza a cui porre rimedio. D’altronde non è più rimandabile una decisa conversione ecologica: è chiaro che i governi devono impegnarsi per sostenere questo tipo di filiera, senza esitazioni. Viviamo un’urgenza che non consente più tentennamenti: la produzione alimentare deve essere sostenibile quindi il regime biologico dovrebbe rappresentare il criterio minimo da garantire diffusamente.