Il settore agricoltura rappresenta il 7% circa delle emissioni nazionali di gas a effetto serra (Ispra 2020).
La concimazione è l’attività agricola che mediamente incide in misura maggiore sulle emissioni di gas climalteranti; in particolare la parte del leone è fatta dai concimi azotati. Infatti, le fasi di produzione e trasporto fino al cancello aziendale di un chilogrammo di azoto di origine ureica emettono (indicativamente) fra i 4 e gli 8 kg di CO2 equivalente. Tuttavia, va segnalato che in questo contesto il peso delle emissioni dovute al trasporto sono trascurabili.
Articolo pubblicato sul numero 31/2021 di Terra e Vita
Abbonati e accedi all’edicola digitale
L’ampia forbice fra i due valori è dovuta al fatto che alcuni paesi europei dispongono in grande quantità di energie provenienti da fonti energetiche che “costano” poco in termini di emissioni di gas serra (in particolare la eolica) e anche che alcuni produttori di urea hanno adottato sistemi che riducono in modo veramente notevole le emissioni in atmosfera di protossido di azoto (N2O).
Questa, infatti, è una molecola gassosa che risulta circa 300 volte più efficace della CO2 nel riflettere le onde termiche (e così trattenendole all’interno dell’atmosfera con le devastanti conseguenze alle quali iniziamo ad assistere).
In altre parole, la dispersione di una di queste equivale all’emissione di trecento molecole di CO2! Uno di questi sistemi impiega un catalizzatore ceramico contenente ossidi di cobalto e cerio, che, in presenza di alte temperature, è capace di scindere la N2O in azoto e ossigeno gassosi.
Emissioni dal campo
Tuttavia, l’unità azotata oltre a essere costata molto in termini di emissioni in fase di produzione e allocazione, emette una quantità quasi altrettanto significativa di gas serra in fase di utilizzazione.
La fase di distribuzione sul campo del fertilizzante mediante spandiconcime o attrezzo analogo genera costi, sotto questo profilo, irrisori (indicativamente inferiori ai 20 g CO2/kg N), mentre è proprio il concime distribuito sul terreno che causa l’emissione diretta di protossido di azoto.
Nel suolo il protossido di azoto è emesso come sottoprodotto delle reazioni di nitrificazione (che portano alla formazione di nitrati che sono le forme azotate più facilmente assorbibili dalle piante) e anche in quelle di denitrificazione (che portano alla liberazione di azoto gassoso molecolare). Queste reazioni sono per lo più mediate da microrganismi.
Le emissioni di protossido di azoto dal terreno agricolo, espresse come CO2 equivalente, si attestano normalmente a valori superiori a 1,0 kg CO2 eq/kg di N ureico. Si stima infatti che una percentuale compresa fra 0,5 e 1,5% dell’azoto ureico distribuito possa essere trasformato in questa molecola. In questo caso la variabilità è data dalle condizioni pedologiche, dalla coltura, dall’andamento meteo-climatico, dalla tecnica di distribuzione (l’interramento ad esempio è più efficace nel contrastare questo fenomeno), dalle quantità, dal tipo di azoto distribuito.
Efficace è anche l’introduzione nel concime ureico di sostanze che rallentano l’attività microbica nitrificante e denitrificante o che direttamente contrastano i fenomeni che portano alla liberazione di N2O. Sono tutti metodi che permettono di migliorare la Nitrogen Use Efficiency, che appunto valuta quanto dell’azoto distribuito è stato assorbito dalla pianta. Tutto questo spiega perché le colture leguminose (azotofissatrici) o quelle che possono sfruttare concimazioni di origine organica prodotta in azienda, vantano sotto questo profilo un grande vantaggio.
Nettamente distanziati seguono in ordine decrescente di impatto (ma ovviamente la graduatoria fra questi gruppi varia molto in funzione delle tecniche e dell’ambiente in cui sono applicate) troviamo gli altri input immessi nel processo produttivo, ma estranei all’azienda agricola (sostanzialmente fitofarmaci, sementi e materiali di consumo plastici e non), le lavorazioni del terreno, comprendendovi in queste anche la semina, la raccolta e il trasporto del prodotto a breve distanza e, infine, l’irrigazione.
Le operazioni di essiccazione non sono state inserite in questa alquanto indicativa graduatoria, perché effettivamente molto variabili e perché possono incidere notevolmente solo sui prodotti a raccolta autunnale.
Da questi dati sembrerebbe emergere che per ridurre le emissioni di gas climalteranti sia poco conveniente agire sulla meccanizzazione. Questo, invece, è un mezzo molto potente che consente di contrastare in misura significativa tali emissioni. Due sono le strategie disponibili: entrambe tecnicamente percorribili, entrambe con riflessi positivi sui costi di produzione e sul reddito, applicabili insieme e capaci di generare sinergie positive.
La conservativa
La prima strategia riguarda l’implementazione di lavorazioni conservative. Queste agiscono sulla riduzione delle emissioni di gas serra in due modi: 1. riducendo drasticamente l’uso delle macchine e i consumi di gasolio (la riduzione delle emissioni dovute a lavorazione e semina si attesta fra il 60 e il 75%); 2. favorendo l’incremento di sostanza organica nel suolo.
Dato che le lavorazioni del suolo incidono poco sulle emissioni di gas serra complessive imputabili ai processi produttivi agricoli, attestandosi sempre al di sotto dei 200 kg CO2/ha, la riduzione delle emissioni garantita dall’implementazione di una gestione conservativa del suolo, pur garantendo un effetto positivo, non le giustifica.
Molto più importante è la possibilità di arricchire il suolo di sostanza organica. Il suolo infatti è uno dei cosiddetti “carbon sink”, cioè pozzi dove può essere fissato il carbonio atmosferico. Per capire l’importanza del carbon sink “suolo”, si consideri che un incremento dello 0,05% di sostanza organica nei primi 15 cm di terreno comporta la fissazione di circa 2 t di CO2/ha.
Con l’abbandono dell’aratura e l’applicazione di una lavorazione ridotta e conservativa e le pratiche di contorno quali l’implementazione della rotazione, di cover crop ecc. ci si può attendere (indicativamente) di incrementare la sostanza organica di due/tre decimi di punto percentuale ogni cinque anni (ovviamente sino al raggiungimento di una soglia che poi si manterrà costante, dipendente dalla localizzazione del terreno e dalle altre modalità di gestione).
L’incremento della sostanza organica nel suolo tenderà poi a ridursi sino a stabilizzarsi dopo circa una sessantina d’anni intorno a valori che, per le regioni del nord Italia, possiamo considerare in prima ipotesi del 4 o 5% (considerando solo lo strato più superficiale del suolo, i primi 15 cm, ciò è possibile).
Implementare la conservativa nei circa 2,8 milioni di ettari a seminativo esistenti nel nord Italia si potrebbe riassorbire ogni anno nei suoli circa 5,5 Gt CO2, pari all’1,3% delle emissioni nazionali, valutate di recente pari a 418 Gt CO2.
Considerando che i valori determinati riguardano solo una parte delle superfici e del territorio italiano e che per il calcolo sono stati utilizzati dati cautelativi, si capisce che il contributo della conservativa può essere tangibile. Secondo alcuni ricercatori, la conservativa a livello globale potrebbe riassorbire fino a un quattordicesimo delle emissioni che avvengono nel pianeta. Vanno infine ricordati gli effetti positivi della conservativa sulla biodiversità nel terreno, sulla resilienza produttiva e sugli input di produzione.
Il rateo variabile
La seconda strategia riguarda l’implementazione dell’agricoltura di precisione. In particolare la guida automatica (adottata per tutte le operazioni) e il rateo variabile, applicato almeno alla distribuzione di fertilizzanti, offrono la concreta possibilità di ridurre le emissioni in misura significativa.
Con la guida automatica si riduce il consumo di gasolio, evitando le sovrapposizioni nelle passate (ad esempio nelle lavorazioni del terreno e in particolare per quelle conservative condotte ad elevata velocità) e si riducono le doppie distribuzioni come accade in operazioni di semina, concimazione, diserbo. In questo caso si persegue un risparmio di prodotto e il rispetto della dose stabilità. Nel caso delle concimazioni (in particolare di quelle azotate), data la loro forte incidenza sulle emissioni di gas climalteranti, il risparmio di prodotto si traduce direttamente in una minore emissione.
Un secondo passo importante riguarda l’adozione del rateo variabile che permette di dosare il concime (o il diserbante) in funzione della potenzialità (o del bisogno) di ogni singola area dell’appezzamento. Com’è noto il rateo variabile si basa su mappe di prescrizione costruite in base alla mappa di produzione rilevata in fase di raccolta negli anni precedenti (storico) e altre tipologie di analisi (ad esempio del suolo, della vigoria ecc.). Con il rateo variabile si migliora l’efficienza dei prodotti distribuiti (e questo può generare una maggior produzione e una minore contaminazione delle acque profonde) e si riducono le dispersioni nell’ambiente (con minori problemi di contaminazione delle acque superficiali).
Nel caso dell’azoto con il rateo variabile è possibile incrementare la Nitrogen Use Efficiency in particolare migliorando la resa produttiva per unità di azoto distribuita. Un ulteriore miglioramento delle performance si può ottenere affiancando alle tecniche di rateo variabile il frazionamento delle dosi distribuite, l’impiego di concimi a lenta cessione, l’introduzione di catch crop e secondi raccolti, l’adozione di sistemi irrigui con bassi gradi di percolazione, concimazioni liquide ecc.
Sinergie fra conservativa e precisione
Una meccanizzazione che intersechi la conservativa con la precisione ottiene innanzitutto i vantaggi che derivano dalla somma dei benefici economici diretti offerti da queste due tecniche di gestione. Inoltre, ottiene i vantaggi che derivano dalle sinergie ecosistemiche che scaturiscono dall’intersecazione di queste due tecniche.
Per esempio, e come ricordato poc’anzi, l’adozione di pratiche conservative incrementa sul medio periodo il contenuto di sostanza organica del suolo; se contemporaneamente applico pratiche di rateo variabile che contribuiscono a ridurre gli sprechi di azoto, riduco anche il catabolismo a carico della sostanza organica stessa accelerando il suo accumulo.
La sostanza organica, a sua volta, porta a un adsorbimento maggiore dei composti azotati altrimenti velocemente lisciviati, ma li assorbe anche, incamerandoli per brevi lassi di tempo all’interno della biomassa edafica (in particolare nella sua fase viva) per poi rilasciarli e operare come un azotato a lenta cessione.
tab. 1 Contributo fornito dalla conservativa secondo l’ipotesi descritta nel testo | |
peso specifico terreno, t/m3 | 1,2 |
profondità considerata, m | 0,15 |
volume di suolo considerato, m3/ha | 1.500 |
incremento annuo di s.o. atteso, % | 0,05% |
incremento annuo di s.o. atteso, kg/ha | 900 |
nuovo carbon sink, kg CO2/ha/anno | 1.914 |
Seminativi nord Italia (2016), ha | 2.845.194 |
Contributo potenziale nord Italia, Gt CO2/anno | 5,45 |
emissioni annuali, Gt CO2/anno | 418 |
Leggi anche:
Carbon farming, un delicato equilibrio da trovare
Dall’economia del carbone alla neutralità del carbonio