Calano le superfici a mais e calano, di pari passo, quelle destinate alla moltiplicazione; vale a dire gli ettari coltivati a mais da seme. Erano quasi 8.200 nel 2013, sono stati meno di 5.400 lo scorso anno: una riduzione del 34% che potrà anche essere in linea con il decremento del mais da granella, ma mette un pesante punto interrogativo sul futuro di questa pratica in Italia. Soprattutto perché, come accade sempre in momenti di crisi, all’estero non stanno a guardare e potrebbero approfittare della nostra debolezza per sottrarre quote di una filiera che coinvolge imprese e lavoratori ben oltre il semplice campo.
I numeri
«Il cattivo momento della moltiplicazione è abbastanza in linea con quello del seminativo italiano – commenta Gianluca Fusco, presidente della sezione Colture industriali di Assosementi – e anche se continuiamo a produrre oltre il 60% del fabbisogno italiano, più o meno come in passato, c’è preoccupazione per alcuni segnali che potrebbero compromettere il futuro di una filiera importante per l’industria sementiera e l’intero comparto».
Il rischio maggiore, fa notare il presidente dell’associazione che raggruppa la filiera del seme italiano, è legato alla tenuta di un settore che è uno dei vanti della nostra agro-industria. «L’Italia è il paese in cui si fa sperimentazione per le varietà tardive. Tutti i sementieri italiani e la maggior parte di quelli internazionali hanno centri di sviluppo in Pianura Padana, dove si lavora anche su varietà destinate a paesi come Grecia, Spagna, Portogallo e Turchia. Tuttavia, mentre la ricerca resta saldamente in mano italiana, la moltiplicazione si sta delocalizzando. Vuoi per le difficoltà a esportare in Turchia e la parallela crescita di quel mercato, vuoi perché stanno nascendo poli di moltiplicazione nell’Est Europa, anche se delocalizzare in quei paesi non è facile a causa della scarsità di acqua irrigua».
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