Intervistare Giovanni Vignola non è semplice. Innanzitutto: in che veste lo sentiamo? Di agricoltore con 1.500 ettari di risaia oppure di industriale, proprietario di una delle più importanti riserie biologiche d’Italia? O, ancora, di inventore di un metodo di coltivazione che sfruttando la pacciamatura si pone l’ambizioso obiettivo di cancellare l’uso degli erbicidi dalla risicoltura moderna?
Generazioni tra le risaie
Giovanni Vignola, figlio di Pietro, figlio di Giovanni e poi ancora di Pietro e Giovanni, è innanzitutto un uomo legato alla famiglia e alle tradizioni. Come quella, appena citata, di chiamare i figli maschi con il nome del nonno, fino ad arrivare a colui che i Vignola considerano il loro capostipite moderno: Giovanni, affittuario del mulino di Balzola (Al), a quei tempi latifondo in mano al nobile di turno.
Parliamo di capostipite moderno perché quello antico potrebbe invece essere l’avo che nel 1400 trasferì la famiglia dal Modenese (da cui il nome Vignola) al Piemonte, determinandone la storia futura. «Fu però il trisnonno Giovanni a metterci sulla strada che ancora oggi stiamo percorrendo quando, nel 1880, rilevò il mulino, diventandone proprietario». Assieme al nome, il mulino passò di padre in figlio fino a diventare, ai giorni nostri, la riseria Vignola, 52 milioni di euro di fatturato, nove etichette di proprietà ma soprattutto trasformatore e impacchettatore per i principali marchi della Gdo. «Le cosiddette private label sono effettivamente l’essenza della nostra attività industriale; non dimentichiamo che nella grande distribuzione valgono dal 40 al 60% delle vendite», precisa Giovanni. L’altra particolarità della riseria Vignola è di fare circa metà del fatturato con il biologico. «Una scelta di vita e non soltanto commerciale, oltre che una filosofia in cui credo molto, principalmente per le sue implicazioni ambientali. Non amo l’agricoltura della chimica; in questo mi sento senza dubbio più industriale che agricoltore, nel senso che mi preoccupo in primo luogo della qualità del prodotto che fornisco ai miei clienti».
Pur non risolvendo la dicotomia tra industriale e agricoltore, Vignola ha ben chiara un’idea: in ogni caso, occorre lavorare sulla qualità. «La nostra è una ricerca costante, e se vogliamo anche ossessiva, della qualità. Poiché ci occupiamo di commoditiy, siamo convinti che la sola strada per distinguersi sia quella della qualità totale: del prodotto, del processo di coltivazione, dell’ambiente di lavoro, ma anche qualità del comportamento etico».
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Un nuovo metodo di coltivazione
La qualità, spiega senza mezzi termini Vignola, deve accomunare industria e agricoltura. «Non è possibile fare qualità in fase di trasformazione senza una sinergia costante con l’agricoltore. Per esempio, noi abbiamo una linea gluten free, che assicura non soltanto l’assenza di glutine dai prodotti, ma che i medesimi non abbiano mai incontrato glutine durante tutto l’arco di coltivazione e produzione. È evidente che per dare una garanzia di questo tipo è necessario un rapporto molto stretto con gli agricoltori, che da fornitori devono trasformarsi in partner del progetto. Allo stesso modo, noi ci sentiamo partner dei nostri clienti, dal momento che gestiamo il riso come se fossimo noi stessi a doverlo vendere».
Vignola, che agricoltore lo è davvero, forte di 1.500 ettari di risaia, applica questo principio ai suoi terreni, facendone oggetto di progetti mirati, grazie ai quali ciascun cliente sa esattamente su che pezzo di terra è stato coltivato il riso che acquista. «Si tratta – ci spiega – di progetti anche complessi, che i nostri competitori difficilmente potrebbero imitare e che pertanto ci danno anche un certo vantaggio concorrenziale. Il nostro obiettivo è, da sempre, quello di dare una garanzia aggiuntiva rispetto a quelle standard. Per esempio, il riso biologico che produciamo è garantito da noi stessi, oltre e ancor più che dall’ente di certificazione. Questo è ciò che chiede il consumatore, oggi: che il produttore ci metta la faccia, spiegando cosa succede nel campo».
Proprio allo scopo di fornire una garanzia definitiva sulla qualità del biologico è nato, ormai tre anni e mezzo fa, quello che è, attualmente, il progetto principale di Vignola: il riso pacciamato. Si tratta di una nuova tecnica di coltivazione, ideata da Vignola stesso, che ha come obiettivo l’eliminazione del diserbo. «L’idea mi venne ripensando a quando ero bambino e vedevo, andando a scuola, alcuni campi di fragole, coltivati su telo pacciamante. Mi dissi che forse qualcosa del genere si poteva fare anche in risicoltura, pratica nella quale il grosso della chimica è rappresentato dai diserbanti. Se fossimo in grado di contenere le infestanti in altro modo, avremmo fatto sicuramente un grosso passo avanti».
Il principio è semplice: seminare il riso nei fori di un telo di pacciamatura, che impedisca la crescita delle infestanti. «Iniziammo subito la sperimentazione e in tre stagioni abbiamo messo a punto un modus operandi abbastanza definito. Tant'è vero che quest’anno ho coltivato 800 dei miei 1.500 ettari di risaia con questa tecnica». I risultati, aggiunge Giovanni Vignola, sono incoraggianti, soprattutto dopo che si è superato l’ostacolo della semina. «Fino allo scorso anno abbiamo seminato a mano, ma dal 2017, grazie alla collaborazione con Samco, una ditta irlandese, abbiamo dieci macchine combinate che stendono il telo e contemporaneamente depositano i semi. Dobbiamo ancora risolvere alcuni problemi – primo fra tutti la nascita di infestanti ai margini del telo – ma il solco è, come si usa dire, tracciato».
Meno concime, meno acqua e nessun diserbo
La pratica attuata da Vignola prevede una concimazione organica – trattandosi di coltivazioni biologiche – prima della semina, quindi la stesura di un telo biodegradabile con deposizione dei semi. A quel punto i trattori non entrano più in campo, se non per la fresatura dei 40 cm circa che restano tra un telo e l’altro. «Purtroppo per estirpare Giavone e riso crodo nelle immediate vicinanze del telo è ancora necessaria l’azione dell’uomo. Speriamo tuttavia di ridurre frequenza e portata di questi interventi con alcune modifiche alla seminatrice».
I costi di manodopera, insomma, sono abbastanza alti e in più si sconta un calo produttivo del 20% circa, dovuto al fatto che lo spazio tra i teli non è seminato. «Anche in questo caso, contiamo di rimediare a breve. Al momento abbiamo una resa di circa 5 tonnellate per ettaro contro le 7 della risicoltura tradizionale. A fronte di questo calo, tuttavia, non spendiamo un euro in diserbi, usiamo un quarto del seme, i costi del gasolio sono irrisori e in più abbiamo un prodotto estremamente sano, grazie al fatto che la distanza di 20 cm tra i fori e di 25 cm tra le file permette la circolazione dell’aria e blocca le malattie fungine».
Un altro vantaggio citato da Vignola è il risparmio di acqua, poiché la medesima arriva in risaia soltanto sei settimane dopo la germinazione. «A mio avviso, peraltro, riducendo il periodo di sommersione si ottiene anche un abbattimento dell’arsenico nel risone». La sperimentazione, prosegue l’agricoltore, è stata seguita passo passo dall’Ente risi. «Vogliamo creare un protocollo aperto, che possa essere utilizzato da tutti i risicoltori interessati. Non è nostra intenzione lucrare su questo metodo, ma fornire uno strumento diverso per coltivare senza danneggiare l’ambiente e ottenendo un prodotto con la massima garanzia di salubrità. Per questo motivo non chiediamo, ai nostri clienti, un euro in più per il riso coltivato su telo. Ci accontentiamo di fidelizzarli al metodo; infatti sempre più spesso pretendono di comprare soltanto riso coltivato in pacciamatura».
Il bio vola, ma attenti all’import
È un momento d’oro per il biologico, un po’ in tutti i settori. Il riso non fa eccezione, tanto che Giovanni Vignola, che da questo settore trae il 50% del fatturato, è stato costretto a ricorrere ai contratti di coltivazione per garantirsi un prodotto sempre più richiesto. «Ormai il rapporto con il prezzo del convenzionale è saltato, per questo abbiamo deciso di adottare la soluzione dei contratti di coltivazione, che ci pongono fuori dal mercato e dalle sue fluttuazioni, garantendoci la materia prima con cui lavorare».
Il rischio, continua l’agricoltore-industriale alessandrino, è tuttavia che, presto o tardi, anche il biologico comincerà ad arrivare dall’estero. «Già oggi importiamo praticamente tutte le varietà Indica e Thaibonnet; dobbiamo vigilare affinché non comincino a produrre anche i tondi, provocando un crollo dei prezzi». Secondo Vignola, la risicoltura italiana non può reggere il confronto con i colossi mondiali, per questo motivo deve essere tutelata. «Non è possibile distruggere una pratica millenaria per un accordo politico-militare che ci obbliga a importare dal sudest asiatico. La storicità della risaia italiana merita tutela, perlomeno con una denominazione d’origine».
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