Gli scarti non sono rifiuti da smaltire. Sono risorse dalle quali è possibile ricavare nuova ricchezza, 100% bio ed ecosostenibile. Insomma: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.
È una delle nuove frontiere della ricerca in campo agroalimentare, come spiega Nicoletta Ravasio, ricercatrice dell’Istituto di Scienze e Tecnologie Molecolari del Cnr (Istm Cnr), che il prossimo anno organizzerà all’Expo di Milano un evento sulla valorizzazione degli scarti prodotti dal settore agroalimentare. L’iniziativa si inserisce nell’ambito dell’azione di ricerca europea Cost (European cooperation in science and technology).
Un salto di qualità
Partiamo sgombrando il campo da equivoci: non stiamo parlando né di utilizzo dello scarto come biomassa per produrre energia, né tanto meno di riciclo. Il concetto del “non si butta via niente” fa un salto di qualità: non si tratta infatti riutilizzare, quanto di sintetizzare dallo scarto qualcosa di completamente nuovo e richiesto dal mercato. Ancora: non tutti gli scarti - almeno per ora - sono destinati a trasformarsi in qualcosa di utile. «La ricerca – spiega Ravasio – è concentrata su alcune specifiche filiere: succhi di frutta, riso, latte, pane e prodotti da forno, in Italia anche pomodoro e vino».
Partiamo dai numeri: nel nostro Paese, secondo i dati di Ravasio, vengono prodotti ogni anno (dati 2012-2013) circa 135mila t di scarti dalla lavorazione del pomodoro da industria (buccette, semi), 1,5 milioni di t dall’uva da vino (buccette, semi, graspi), 2,2 milioni di t di paglia, 0,3 milioni di lolla, 0,1 milioni di pula (bran) dal riso. Scarti non solo consistenti, ma in alcuni casi anche “pericolosi”: «la paglia da riso è inquinante. Poiché non si sa cosa farne, gli agricoltori la re-interrano: una pratica che genera 60 kg di metano per ogni tonnellata interrata».
Anche il siero del latte - nel mondo se ne producono circa 200 milioni di t - rappresenta un problema, perché contiene moltissimo lattosio, uno zucchero che deve essere trattato prima di essere smaltito. Pensiamo poi alle difficoltà logistiche connesse alla gestione del pane: secondo una ricerca della catena Tesco, il 40% degli avanzi nella gdo è rappresentato da pane e prodotti da forno. Che farne?
La risposta, grazie allo sforzo dei ricercatori, è multiforme. Dagli scarti dell'industria agrumaria, ossia dalle bucce d’arancio, chiamate “pastazzo", si riescono a ricavare solventi bio, mentre sono stati effettuati tentativi per ottenere materie plastiche. Le bucce d’arancio, come quelle della mela, contengono inoltre pectine, sostanze tradizionalmente utilizzate come addensanti, per le quali la scienza sta cercando nuovi sbocchi industriali.
Sorbitolo e dulcitolo
Dai residui di lavorazione del riso, del pomodoro e dell’uva si ottiene invece olio vegetale, «sempre più richiesto dall’industria per scopi energetici». Per il siero del latte sono in studio diverse soluzioni: in primo luogo si sta sperimentando la possibilità di trasformare il lattosio in sorbitolo (noto dolcificante) e in dulcitolo, sostanza ancora poco conosciuta, ma che potrebbe essere valorizzata nell’industria alimentare. Entrambi potrebbero inoltre essere destinati alla produzione di prodotti bio-plastici. Infine il pane: gli avanzi possono essere utilizzati per ricavare acido polilattolico, polimero dal quale si ricavano pellicole biodegradabili, sacchetti di bio-plastica, materiali medici e sieri cosmetici.
Insomma, le possibilità sembrano essere numerose. Ora sta alla società e alla politica fare in modo che si trasformino in opportunità economiche. «Il settore è ancora giovane, ha mosso i suoi primi passi negli ultimi anni. Non siamo ancora arrivati alla fase operativa, ma l’interesse, sia della ricerca che dell’opinione pubblica, è molto alto. Ora sarebbe importante uno sforzo del legislatore, che dovrebbe creare un ambiente favorevole a certe pratiche, che potrebbero avere ricadute importanti sull’economia, sull’occupazione, sulla formazione di start up».