Piccole filiere crescono.
Quella del luppolo cerca di agganciarsi al boom travolgente del settore delle birre artigianali
ed agricole italiane ma deve superare criticità che per ora ne limitano le superfici a non più di 80 ettari lungo tutto lo stivale.
Se n’è parlato alla fiera Beer&Food Attraction di Rimini in occasione del convegno “Criticità e prospettive per la luppolicoltura italiana” organizzato da Italian exhibition group in collaborazione con il Mipaaf e la moderazione di Terra e Vita, in uno degli ultimi eventi prima della chiusura per l’emergenza covid 19.
Il contributo della ricerca
L’occasione anche per divulgare i risultati del tavolo tecnico istituito presso il Mipaaf, che punta a elaborare un Piano di settore.
«Una delle priorità – dice Alberto Manzo del Mipaaf - è quella di organizzare la filiera in chiave bioeconomica, per definire certificazioni di prodotto e di processo, qualità e filiere territoriali integrate». Il modello italiano di produzione del luppolo dovrà risolvere infatti criticità legate alla selezione di varietà produttive, allo sviluppo di una meccanizzazione adeguata (per la raccolta e la gestione di impianti che possono superare i 7 metri di altezza) e la soluzione delle problematiche sanitarie (senza prodotti registrati o quasi) a partire dalla fase vivaistica.
«Si è concluso – testimonia Katya Carbone, ricercatrice del Crea-OFA di Roma - il primo ciclo del progetto di ricerca coordinato dal Crea». Tra i risultati: il monitoraggio sanitario anche del materiale di moltiplicazione, la valorizzazione dell’origine italiana con l’analisi del ruolo del terroir, la sostenibilità della filiera».
Un nuovo progetto di ricerca (InnovaLuppolo) è già partito e tra gli obiettivi ci sono la valorizzazione dei sottoprodotti per usi medicali, innovazioni di processo e alternative al dry hops.
Servono contratti di filiera
«La coltura ha oggettive difficoltà – ricorda Domenico Bosco di Coldiretti - che devono trovare una soluzione (fitofarmaci, varietà, certificazioni fitosanitarie ecc.): per sviluppare la filiera italiana servono progetti e contratti di filiera». È l’obiettivo del Consorzio di filiera della birra artigianale italiana nato su iniziativa di Coldiretti e di un gruppo di produttori agricoli malterie e birrifici per valorizzare l’origine italiana quale elemento di distinzione e competitività.
L’unico ingrediente che non c’è
«È necessario – dice Michele Cason di AssoBirra- fare scelte strategiche per dare un futuro alla coltivazione di luppolo in Italia, ma occorre sapere che le potenzialità non superano i 600 ettari».
Un dato contestato da tutti gli altri relatori che stimano un fabbisogno almeno triplo. «Il made in Italy – ribatte Ivan Nardone di Cia Agricoltori Italiani -è un brand importante da finalizzare attraverso il rafforzamento di una filiera certificata».
«La strada giusta – sostiene Francesco Neri di Confagricoltura – è quello di fare crescere i distretti locali». «Il forte sviluppo della birra agricola – interviene Giovanni Bernardini di Copagri Marche - evidenzia la necessità di riuscire ad avere luppoli italiani per potersi dichiarare italiano al 100%».
Verso un marchio collettivo nazionale
«La filiera del luppolo italiano – assicura Dario Cherubini, fondatore e Presidente dell’Associazione Nazionale Luppoli d’Italia (ALI) composta da 9 produttori che operano lungo tutta la penisola – è piccola e recente ma già si sta unendo per definire un marchio collettivo nazionale legato a un disciplinare di produzione che affronti le problematiche trattate al tavolo tecnico di filiera»
«Unionbirrai – conclude Simone Monetti, Segretario Generale di questa associazione di birrifici artigianali - tutela i Piccoli Produttori Indipendenti di Birra incentivando quindi la diversità di prodotti disponibili sul mercato, nonchè gli agricoltori che garantiscono il corretto e variegato approvvigionamento di materie prime».
Tra biodiversità e selezione
Il luppolo in Italia cresce spontaneo e la sua naturale presenza lungo tutto lo stivale rende questa specie uno scrigno di biodiversità al momento poco conosciuto.
«Nel 2011 l’Università di Parma – dice Tommaso Ganino, professore associati di questo ateneo - ha iniziato un’intensa attività di ricognizione e selezione in diverse regioni (Emilia – Romagna, Lombardia, Trentino, Toscana, Calabria)».
«Al momento sono circa 300 i genotipi collezionati nel campo collezione di Marano sul Panaro (MO), di questi, nel 2016, ne sono stati selezionati 3 (Futura, Aemilia e Modna) che al momento rappresentano gli unici genotipi italiani in coltivazione professionale».
Gli aromi passano dal floreale allo speziato, dal fruttato “mediterraneo” al “tropicale”. «Nell’ambito del floreale un aroma particolare è stato quello che ricorda il crisantemo o il geranio. Il fruttato più particolare è stato quello tipico del cedro». Il futuro in questo momento non sembra essere tanto lontano.
Per marchi di birra (veramente) tipica servirebbe, a mio parere, anche sviluppare e promuovere l’utilizzazione di varietà di orzo selezionate per specifici ambienti italiani.