Negli areali salentini colpiti dal batterio Xylella fastidiosa, l’olivicoltura, che da quattro anni accusa un continuo ampliamento della superficie infetta e un corrispondente calo produttivo, può invertire la rotta e ripartire, con la razionalizzazione degli impianti sani e la realizzazione di nuovi impianti utilizzando varietà tolleranti al batterio. Ma con un punto fermo: la trasformazione che il territorio vivrà deve avvenire attraverso il protagonismo degli olivicoltori e dei frantoiani e in piena collaborazione con i tecnici professionisti del settore. È quanto emerso dall’incontro tecnico “Una nuova olivicoltura per il Salento” organizzato a Calimera (Le) dall’Apol e dalla Cia di Lecce, dall’Ordine dei dottori agronomi e dei dottori forestali della provincia di Lecce, dal Collegio provinciale dei periti agrari e dei periti agrari laureati e dal Collegio interprovinciale degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati di Lecce.
«All’interrogativo su quale olivicoltura sia proponibile per gli areali infetti occorre dare risposte urgenti, sebbene non siano facili, perché il Salento annovera ben 65.000 aziende olivicole, pari a un decimo di quelle italiane - ha sostenuto Salvatore Camposeo, docente di Arboricoltura generale al Disaat dell’Università di Bari -. Perciò conforta osservare che lo stato delle conoscenze progredisce, rendendo man mano più semplice capire come affrontare una situazione nuova per l’Italia».
Preservare gli oliveti sani
Poiché l’olivicoltura salentina si caratterizza per una grande variabilità di sistemi colturali, per Camposeo occorre individuare soluzioni diverse per ogni sistema. Puntando in primo luogo a salvare gli oliveti ancora sani, non infettati dal batterio. «Contro i vettori del batterio è opportuno erigere barriere, sia agronomiche, mediante l’eliminazione con mezzi meccanici di tutta la vegetazione spontanea per un’ampiezza di almeno 5 metri su tutto il perimetro dell’oliveto, sia fisiche, con l’installazione fissa di reti anti insetto alte almeno 2 metri».
L’approccio giusto per una nuova olivicoltura deve andare, tuttavia, oltre questi interventi particolari e mirare da un lato alla zonizzazione e alla razionalizzazione degli oliveti esistenti, dall’altro alla realizzazione di nuovi impianti. «La zonizzazione è un importante strumento di governo del territorio. Grazie a essa chi amministra può rendersi conto delle diverse olivicolture regionali e locali e offrire soluzioni diversificate area per area. Basta pensare che nel Salento sono stati censiti 300.000 olivi monumentali, ma ne sono stati stimati 5 milioni. Fondamentale è poi la razionalizzazione della situazione esistente nelle aree infette e non infette: per gli oliveti sani la strada da seguire è la sostenibilità agronomica, economica ed ecologica mediante la produzione integrata o quella biologica».
Il futuro ecosostenibile dell’olivicoltura passa attraverso la gestione del suolo e la gestione della chioma con la potatura meccanica. «Pedonalizzazione e meccanizzazione sono percorsi validi e virtuosi, come già accade per la viticoltura. Inoltre è possibile conciliare ulteriormente economia ed ecologia con la moderna olivicoltura di precisione, che permette di razionalizzare tutte le operazioni colturali».
Reinnesti e reimpianti
Nell’operazione di recupero dell’olivicoltura esistente è utile fare ricorso, ha raccomandato Camposeo, alla tecnica del reinnesto degli olivi, soprattutto per le piante più importanti, per alberi di particolare pregio.
«Come già si è fatto su grandi estensioni olivicole per sostituire l’Ogliarola barese con la Coratina, come si è fatto per debellare la fillossera della vite innestando le varietà coltivate europee su piede americano, il reinnesto è uno strumento per salvare economia e paesaggio. A tale fine, profittando della grande biodiversità olivicola presente in Italia, sono in atto ampi studi sulla tolleranza varietale al batterio Xylella, con indagini in vivo sul vasto patrimonio elaiografico regionale e nazionale e su semenzali. Sono altresì in fase di definizione e verifica l’altezza del punto di innesto, le interazioni fra i bionti e il valore agronomico dei semenzali».
Il ricorso al reinnesto, ha puntualizzato Camposeo, permette di conservare il sesto di impianto, lo stato del suolo e il paesaggio e consente altresì il cambiamento della forma di allevamento, della gestione colturale, del metodo di raccolta e della qualità dell’olio estratto. «Infine bisogna ricordare che l’adozione della tecnica del reinnesto richiede tre requisiti indispensabili di cui tenere conto: convenienza economica, mentalità imprenditoriale e assistenza tecnica specializzata».
Per i nuovi impianti olivicoli è possibile utilizzare, come sancito dall’Ue, solo varietà tolleranti al batterio Xylella, ha ricordato Camposeo. «Le varietà attualmente dimostrate tolleranti sono la Leccino e la Fs-17® o Favolosa. Per quanto la Leccino si faccia infettare dieci volte meno delle varietà tradizionali del Salento, Cellina di Nardò e Ogliarola salentina, e la Fs-17® venti volte meno di queste due varietà, sono in fondo dei “cavalli di Troia”, perché, essendo tolleranti e non resistenti, si lasciano infettare, contengono al loro interno il batterio e lo rendono propagabile, ma comunque continuano a vegetare e produrre. Il progetto Re.Ger.O.P., finanziato dal Psr Puglia 2007-2013 e finalizzato alla conservazione e caratterizzazione del germoplasma olivicolo regionale, ha permesso di individuare oltre 200 accessioni olivicole, delle quali si sta ora valutando la tolleranza a Xylella con l’obiettivo di poter disporre di un più ampio ventaglio di scelta varietale».
Ma come è consigliabile realizzare i nuovi impianti, seguendo il modello intensivo o adottando quello superintensivo? Per Camposeo «è un fatto culturale prima e colturale poi. La cultivar gioca un ruolo cruciale: la Leccino è indicata per l’intensivo, con sesto rettangolare, 400 alberi per ettaro e vaso impalcato basso, ma non per il superintensivo; la Fs-17® per l’uno e per l’altro. Si tenga tuttavia conto che Fs-17 non è la più adatta a modelli di impianto superintensivi e, pertanto, necessita di sesti appropriati. Naturalmente il passaggio al modello superintensivo implica un cambiamento di mentalità che deve essere realmente imprenditoriale, quindi deve concepire l’oliveto come un normale frutteto e prevedere una specifica assistenza tecnica».
Ripensare l’agroecosistema
L’arrivo del batterio Xylella è un’occasione per ripensare l’agroecosistema, ha affermato Luigi De Bellis, direttore del Disteba dell’Università del Salento, impegnato nella ricerca dei fattori che possono concorrere all’induzione di tolleranza/resistenza a Xylella fastidiosa.
«L’individuazione di varietà resistenti nel medio-lungo periodo è uno strumento indispensabile per il futuro dell’olivicoltura salentina. Ma è importante evitare una nuova condizione monocolturale di qualsivoglia specie e varietà. La resistenza può essere superata sia per mutazioni nel ceppo presente o per introduzione di nuovi ceppi, sia a causa di nuovi patogeni che sempre potranno essere introdotti. È quindi necessario rendere l’agroecosistema salentino resiliente, in grado di assorbire gli “urti” che inevitabilmente si verificheranno. La diversificazione è uno strumento riconosciuto di sostenibilità, ambientale ed economica. E la sostenibilità va valutata anche in funzione delle risorse idriche, perciò è opportuno introdurre in olivicoltura l’impiego di acque reflue».
Un invito del quale si è reso partecipe Antonio Bruno, agronomo in servizio presso il Consorzio di bonifica “Ugento e Li Foggi”. «Per irrigare un oliveto sono necessari, a seconda dell’andamento climatico, da 600 a 4000 m³/ha di acqua irrigua.
Il riuso delle acque reflue, attualmente disponibili ma scaricate a mare, può non solo contribuire a soddisfare le esigenze irrigue degli olivi salentini, ma anche ridurre l’utilizzo di fertilizzanti nella produzione olivicola».
Leggi l’articolo su Olivo e Olio n. 2/2018